Ursula Le Guin - La spiaggia più lontana

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La pace che sembrava tornata nel mondo fatato di Earthsea dopo la riconquista da parte di Ged della metà mancante dell’anello magico di Erreth-Akbe nei labirinti oscuri delle tombe di Atuan, è di nuovo in pericolo: Arren, il giovane principe di Enlad, la più antica casata di Earthsea, viene personalmente all’isola di Roke per avvertire l’Arcimago Ged, ormai maturo e famoso in tutto il mondo, che la magia va scomparendo in tutte le terre del Nord. Nessuno sa il perché, ma gli antichi incantesimi non funzionano più ed i maghi vanno perdendo la conoscenza della “lingua antica” che era alla base della loro forza.
Così, per scoprire da dove provenga questa minaccia che allarga con tanta rapidità la sua sfera d’influenza, Ged ed Arren, l’uomo saggio ed il fanciullo inesperto, partono per un viaggio che sarà una vera e propria odissea: un lungo vagabondare attraverso le isolette e le genti di Earthsea che li porterà ad affrontare pericoli di tutti i generi (briganti, mercanti di schiavi, traversate avventurose in mari burrascosi), fino a giungere all’ultima spiaggia, a Selidor, l’isola all’estremità del mondo, dove risiedono i draghi, ed ancora più oltre, in un luogo desolato da cui nessuno fa mai ritorno.
La spiaggia più lontana conclude il ciclo di Ged, un ciclo di rara bellezza letteraria e di grande coerenza interna, che accoppia ad una poetica narrazione di eroiche gesta, un’allegorica riflessione sull’equilibrio cosmico e sull’essenza della vita.

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— È un bel canto — disse il capo. Aveva un tono incerto, sebbene si sforzasse di essere impassibile. — Non sarebbe stato bene terminare la Lunga Danza prima che fosse completa. Farò frustare i cantori pigri con corde di nilgu.

— Consolati, piuttosto — disse Sparviero. Era ancora in piedi, e il suo tono era imperioso. — Nessun cantore sceglie il silenzio. Vieni con me, Arren.

Si voltò per andare al riparo, e Arren lo seguì. Ma le stranezze di quell’alba non erano ancora finite, perché proprio allora, mentre l’orlo orientale del mare diventava bianco, venne in volo dal nord un grande uccello, così in alto che le sue ali riflettevano la luce del sole non ancora spuntato sul mondo, e battevano in lampi d’oro nell’aria. Arren gridò, tendendo il braccio per indicarlo. Il mago alzò la testa, stupito. Poi il suo volto diventò ardente ed esultante, e lui gridò a gran voce « Nam hietha arw Ged arkvaissa! », che nella Lingua della Creazione significa: se cerchi Ged lo troverai qui.

E come un piombo dorato, con le ali alte e protese, immense e tonanti nell’aria, con gli artigli che avrebbero potuto afferrare un bue come se fosse un topolino, con una spira di fiamma fumante che usciva dalle lunghe narici, il drago si avventò in picchiata come un falcone sopra la zattera ondeggiante.

La gente delle zattere lanciò grida; alcuni si rannicchiarono, alcuni saltarono in mare, e altri restarono immobili a osservare, con una meraviglia che vinceva anche la paura.

Il drago restò librato sopra di loro. Le immense ali membranose avevano un’apertura di trenta braccia, forse, da un’estremità all’altra, e splendevano nella luce del nuovo sole come fumo screziato d’oro; e il suo corpo non era meno lungo, ma snello, arcuato come quello di un levriero, con artigli di lucertola e squame di serpente. Lungo la spina dorsale correva una fila di creste irregolari, simili nella forma alle spine dei rosai, ma alla gobba del dorso erano alte un braccio, e diminuivano gradatamente, così che l’ultima, alla punta della coda, non era più lunga della lama di un coltellino. Le spine erano grige, e le squame erano grigio-ferro, ma avevano un baluginio d’oro. Gli occhi erano verdi, con sottili pupille verticali.

Spinto dalla paura per la sua gente a dimenticare la paura per se stesso, il capo del popolo delle zattere uscì dal riparo con un arpione, di quelli che venivano usati nella caccia alle balene: era più lungo di lui, e aveva una grande punta uncinata d’avorio. Reggendolo sul piccolo braccio muscoloso, corse avanti per acquisire lo slancio e scagliarlo contro il ventre del drago che incombeva sopra la zattera.

Arren si scosse dallo stupore, lo vide, e si precipitò: l’afferrò per il braccio e cadde insieme a lui e all’arpione, in un mucchio. — Vuoi farlo infuriare con quel tuo stupido spillo? — ansimò. — Lascia parlare prima il Signore dei Draghi!

Il capo, col fiato mozzo, guardò istupidito Arren e il mago e il drago.

Ma non disse nulla. E poi il drago parlò.

Soltanto Ged, al quale stava parlando, poteva comprenderlo, perché i draghi usano soltanto la Vecchia Lingua, che è la loro favella. La voce era bassa e sibilante, quasi come quella di un gatto quando grida sommesso il proprio furore, ma era immane, e aveva una sua terribile musicalità.

Chiunque udiva quella voce s’immobilizzava per ascoltare.

Il mago rispose, brevemente, e il drago parlò di nuovo, restando sospeso sopra di lui, con le ali che si muovevano lievemente: sembrava, pensò Arren, una libellula librata nell’aria.

Poi il mago rispose con una sola parola: «Memeas», verrò; e alzò il bastone di legno di tasso. Le fauci del drago si aprirono, e ne uscì una voluta di fumo in un lungo arabesco. Le ali dorate sbatterono come un tuono, creando un gran vento che odorava di bruciato; e il drago volteggiò e volò immenso verso il nord.

C’era silenzio, sulle zattere, un silenzio rotto solo dal pigolante piagnucolio dei bambini e dalle voci delle donne che li consolavano. Gli uomini risalirono dal mare con espressioni vergognose; e le torce dimenticate bruciavano nei primi raggi del sole.

Il mago si rivolse ad Arren. Aveva sul volto una luce che poteva essere gioia o collera, ma parlò quietamente: — Adesso dobbiamo andare, ragazzo. Saluta i tuoi amici e vieni. — Si voltò per ringraziare il capo del popolo delle zattere e dirgli addio, e poi passarono dalla grande zattera, attraverso altre tre, poiché erano ancora accostate per la danza, finché giunsero a quella cui stava legata la Vistacuta. La barca aveva seguito così la città di zattere nella lunga e lenta deriva verso il sud, ondeggiando vuota; ma i Figli del Mare Aperto avevano riempito il barile con la preziosa acqua piovana e l’avevano rifornita di provviste per onorare gli ospiti, perché molti di loro credevano che Sparviero fosse uno dei Grandi e che avesse assunto la forma di uomo anziché quella di balena. Quando Arren lo raggiunse, aveva già alzato la vela. Arren sciolse l’ormeggio e balzò nella barca, e in quell’istante la Vistacuta virò, scostandosi dalla zattera, e la sua vela si tese come per un gran vento, sebbene spirasse soltanto la brezza dell’aurora. Virò e corse verso nord, sulle tracce del drago, leggera come una foglia portata dal vento.

Quando Arren si voltò indietro, vide la città di zattere come una manciata di fuscelli e di schegge di legno che galleggiavano minuscoli sull’acqua: le capanne e i pali reggitorcia. Ben presto anche quelli si persero nei barbagli della luce del sole sulle onde. La Vistacuta correva veloce. Quando la sua prua mordeva le acque s’innalzava un finissimo pulviscolo cristallino, e il vento della sua corsa ributtava all’indietro i capelli di Arren e lo costringeva a socchiudere gli occhi.

Nessun vento del mondo avrebbe potuto far navigare così rapida la piccola imbarcazione, se non quello della tempesta; ma in quel caso sarebbe affondata tra le onde del fortunale. Quello non era un vento del mondo: erano la parola e il potere del mago, a farla volare così.

Sparviero rimase a lungo ritto accanto all’albero, con gli occhi fissi. Infine si sedette come al solito accanto al timone, e vi appoggiò una mano, e guardò Arren.

— Era Orm Embar — disse, — il Drago di Selidor, parente del grande Orm che uccise Erreth-Akbe e fu ucciso da lui.

— Era a caccia, mio signore? — chiese Arren; perché non sapeva se il mago avesse parlato al drago con parole di benvenuto oppure di minaccia.

— Dava la caccia a me. Quello che i draghi cercano, lo trovano. È venuto a chiedere il mio aiuto. — Sparviero rise, brevemente. — Ed è una cosa che non crederei, se qualcuno me lo dicesse: un drago che si rivolge a un uomo per chiedere aiuto. E tra tutti, proprio quello! Non è il più vecchio, sebbene sia vecchissimo, ma è il più possente della sua specie. Non nasconde il proprio nome, come devono fare uomini e draghi. Non ha paura che qualcuno possa acquisire potere su di lui. E non inganna, secondo la tradizione della sua razza. Molto tempo fa, su Selidor, mi lasciò vivere, e mi rivelò una grande verità: mi disse come si poteva ritrovare la Runa dei Re. È a lui che devo l’Anello di Erreth-Akbe. Ma non avrei mai pensato di ripagare un simile debito, e a un simile creditore!

— Cosa ti ha chiesto?

— Di mostrarmi la via che cerco — rispose il mago, incupendosi. Poi, dopo una pausa: — Ha detto: «A occidente c’è un altro Signore dei Draghi: opera la distruzione tra noi, e il suo potere è più grande del nostro». Io ho chiesto: «Anche del tuo, Orm Embar?». E lui ha detto: «Anche del mio. Ho bisogno di te: seguimi in fretta». E io ho ubbidito al suo comando.

— Non sai altro?

— Presto saprò di più.

Arren arrotolò il cavo d’ormeggio, lo ripose, e sbrigò le altre piccole mansioni di bordo, ma la tensione dell’eccitamento cantava dentro di lui come la corda tesa di un arco; e quando infine lui parlò, la tensione cantò anche nella sua voce. — Questa — disse, — è una guida migliore delle altre!

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