Ursula Le Guin - La spiaggia più lontana

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La pace che sembrava tornata nel mondo fatato di Earthsea dopo la riconquista da parte di Ged della metà mancante dell’anello magico di Erreth-Akbe nei labirinti oscuri delle tombe di Atuan, è di nuovo in pericolo: Arren, il giovane principe di Enlad, la più antica casata di Earthsea, viene personalmente all’isola di Roke per avvertire l’Arcimago Ged, ormai maturo e famoso in tutto il mondo, che la magia va scomparendo in tutte le terre del Nord. Nessuno sa il perché, ma gli antichi incantesimi non funzionano più ed i maghi vanno perdendo la conoscenza della “lingua antica” che era alla base della loro forza.
Così, per scoprire da dove provenga questa minaccia che allarga con tanta rapidità la sua sfera d’influenza, Ged ed Arren, l’uomo saggio ed il fanciullo inesperto, partono per un viaggio che sarà una vera e propria odissea: un lungo vagabondare attraverso le isolette e le genti di Earthsea che li porterà ad affrontare pericoli di tutti i generi (briganti, mercanti di schiavi, traversate avventurose in mari burrascosi), fino a giungere all’ultima spiaggia, a Selidor, l’isola all’estremità del mondo, dove risiedono i draghi, ed ancora più oltre, in un luogo desolato da cui nessuno fa mai ritorno.
La spiaggia più lontana conclude il ciclo di Ged, un ciclo di rara bellezza letteraria e di grande coerenza interna, che accoppia ad una poetica narrazione di eroiche gesta, un’allegorica riflessione sull’equilibrio cosmico e sull’essenza della vita.

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Arren guardava il suo compagno ritto sulla sottile prua, intento a parlare con l’essere mostruoso librato sopra di lui, che riempiva metà del cielo: e una specie di orgoglio compiaciuto invase il suo cuore nel vedere quanto è piccolo e fragile e terribile un uomo. Perché il drago avrebbe potuto strappare la testa all’uomo con un sol colpo delle sue zampe unghiute, avrebbe potuto stritolare e affondare la barca come una pietra affonda una foglia galleggiante, se fossero state soltanto le dimensioni ad avere importanza. Ma Sparviero era pericoloso quanto Orm Embar, e il drago lo sapeva.

Il mago girò la testa. — Lebannen — disse; e il ragazzo si alzò e avanzò, sebbene non desiderasse avvicinarsi di un passo a quelle fauci lunghe cinque braccia, a quegli occhi lunghi, gialloverdi, dalle pupille verticali, che lo guardavano brucianti dall’aria.

Sparviero non gli disse nulla, ma gli posò una mano sulla spalla e parlò di nuovo al drago, brevemente.

— Lebannen — disse la voce immane, spassionata. — Agni Lebannen!

Arren alzò la testa: poi la pressione della mano del mago gli rammentò il monito, e lui evitò lo sguardo degli occhi verde-oro.

Non sapeva parlare la Vecchia Lingua, ma non era ammutolito. — Io ti saluto, Orm Embar, nobile drago — disse con voce chiara, come si conviene a un principe che ne incontra un altro.

Poi ci fu silenzio, e il cuore di Arren batté convulsamente, faticosamente. Ma Sparviero, ritto accanto a lui, sorrise.

Il drago riprese a parlare, e Sparviero rispose: ad Arren quel dialogo parve lungo. Alla fine terminò all’improvviso. Il drago s’innalzò con un colpo d’ala che per poco non rovesciò la barca, e si allontanò. Arren guardò il sole; e gli parve che non fosse più vicino al tramonto. Il dialogo, in realtà, non era stato lungo. Ma il volto del mago aveva il colore della cenere bagnata, e gli brillavano gli occhi, quando li voltò verso Arren. Si sedette.

— Ben fatto, ragazzo — disse con voce rauca. — Non è facile… parlare ai draghi.

Arren preparò un po’ di cibo, perché non avevano mangiato per tutto il giorno; e il mago non disse altro fino a quando ebbero mangiato e bevuto. Ormai il sole era basso sull’orizzonte, sebbene a quelle latitudini settentrionali, non molto tempo dopo la metà dell’estate, la notte giungesse tardi e lentamente.

— Bene — cominciò Sparviero, — Orm Embar, a modo suo, mi ha detto molto. Afferma che colui che cerchiamo è e non è su Selidor… È difficile, per un drago, parlare chiaramente. Non hanno una mentalità semplice. E anche quando uno di loro vuol dire la verità a un uomo (il che avviene di rado), non sa come appare all’uomo la verità. Perciò gli ho chiesto: «Così come tuo padre Orm è a Selidor?». Perché, come tu sai, è stato là che Orm e Erreth-Akbe morirono combattendo l’uno contro l’altro. E lui ha risposto: «No e sì. Lo troverai a Selidor, ma non a Selidor». — Sparviero s’interruppe e rifletté, masticando un tozzo di pane duro. — Forse intendeva dire che, sebbene l’uomo non sia a Selidor, è là che dobbiamo andare per raggiungerlo. Forse…

«Poi gli ho chiesto degli altri draghi. Ha detto che quest’uomo è andato tra loro, perché non li teme: anche se viene ucciso ritorna dalla morte vivo, nel suo corpo. Perciò hanno paura di lui, come di un essere al di fuori della natura. Il loro timore permette alla sua magia di dominarli; e lui toglie loro la Lingua della Creazione, lasciandoli preda della loro indole selvaggia. Perciò si divorano a vicenda, o si tolgono la vita buttandosi in mare… una morte odiosa per il serpente di fuoco, la belva del fuoco e del vento. Allora ho chiesto: "Dov’è il tuo signore, Kalessin?". E la sua unica risposta è stata: "È a occidente". E questo può significare che Kalessin è volato verso le altre terre, più lontano di quanto si siano mai spinte le navi, secondo i draghi; oppure può significare qualcosa di diverso.

«Allora non ho fatto altre domande, e lui ha formulato la sua, dicendo: "Ho sorvolato Kaltuel, tornando a nord, e le Toringate. A Kaltuel ho visto gli abitanti di un villaggio uccidere un neonato sulla pietra di un altare, e a Ingat ho visto un incantatore ucciso dai suoi compaesani a colpi di pietre. Ged, credi che divoreranno il bambino? L’incantatore tornerà dalla morte e scaglierà pietre contro i suoi compaesani?". Ho pensato che si burlasse di me, e stavo per rispondergli irosamente: ma non mi stava deridendo. Ha detto: "Le cose hanno perso ogni senso. C’è una breccia nel mondo, e il mare ne defluisce. La luce ne defluisce. Rimarremo nella terra arida. Non si parlerà più e non si morirà più". E così, finalmente, ho compreso ciò che intendeva dirmi.

Arren non lo comprese; e inoltre, era dolorosamente turbato. Perché Sparviero, ripetendo le parole del drago, aveva inequivocabilmente chiamato se stesso col suo vero nome. E questo richiamò alla mente di Arren il triste ricordo della donna sofferente di Lorbanery che gridava «il mio nome è Akaren!». Se i poteri della magia e della musica, e del linguaggio e della fiducia, si andavano indebolendo e avvizzendo tra gli uomini, se la follia della paura li prendeva, cosicché, come i draghi orbati della ragione, si scagliavano l’uno contro l’altro per distruggersi… se era così, come poteva salvarsi il suo signore? Era abbastanza forte?

Non appariva forte, seduto con le spalle curve sulla cena di pane e di pesce affumicato, con i capelli ingrigiti e strinati dal fuoco, e le mani sottili, e il volto stanco.

Eppure il drago lo temeva.

— Cosa ti affligge, ragazzo?

Con lui, si poteva dire solo la verità.

— Mio signore, tu hai pronunciato il tuo nome.

— Oh, sì. Dimenticavo: non l’avevo mai fatto, prima. Avrai bisogno del mio vero nome, se andremo dove dobbiamo andare. — Sparviero alzò gli occhi verso Arren, masticando. — Pensavi che fossi rimbambito e che me ne andassi in giro a barbugliare il mio nome, come i vecchi stolti che hanno dimenticato il buonsenso e la dignità? Non ancora, ragazzo!

— No — disse Arren, così confuso che non seppe aggiungere altro. Era stanchissimo: la giornata era stata lunga, e piena di draghi. E la via davanti a lui diventava sempre più tenebrosa.

— Arren — riprese il mago. — No: Lebannen. Dove stiamo andando, è impossibile nascondersi. Là tutti portano il loro vero nome.

— I morti non possono soffrire — replicò Arren, tristemente.

— Non è soltanto là, non solo nella morte, che gli uomini prendono il loro nome. Coloro che possono rimanere feriti di più, i più vulnerabili: coloro che hanno dato amore e non l’hanno ricevuto, pronunciano l’uno il nome dell’altro. Coloro che hanno cuore fedele, i datori di vita… Sei esausto, ragazzo. Sdraiati e dormi. Non c’è nulla da fare, ormai, se non mantenere la rotta per tutta la notte. E domattina vedremo l’ultima isola del mondo.

Nella voce di Sparviero c’era una gentilezza insuperabile. Arren si raggomitolò a prua, e il sonno venne subito a lui. Udì il mago incominciare una nenia sommessa, quasi mormorante, non in hardese ma nelle parole della Creazione: e mentre incominciava finalmente a comprendere e a ricordare il significato di quelle parole, un attimo prima di capirle si addormentò.

In silenzio, il mago ripose il pane e il pesce, controllò le lenze, rimise ordine sulla barca; poi, presa la cima che guidava la vela e sedutosi, suscitò un forte vento magico. Instancabile, la Vistacuta corse veloce verso nord, come una freccia sul mare.

Ged abbassò lo sguardo su Arren. Il volto del ragazzo addormentato era illuminato dall’oro rosso del lungo tramonto, i capelli scomposti erano agitati dal vento. L’aspetto delicato, disinvolto, principesco del ragazzo che si era seduto accanto alla fontana della Grande Casa pochi mesi prima era scomparso: quel volto era più magro e più duro, e molto più forte. Ma non era meno bello.

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