Ursula Le Guin - La spiaggia più lontana

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La pace che sembrava tornata nel mondo fatato di Earthsea dopo la riconquista da parte di Ged della metà mancante dell’anello magico di Erreth-Akbe nei labirinti oscuri delle tombe di Atuan, è di nuovo in pericolo: Arren, il giovane principe di Enlad, la più antica casata di Earthsea, viene personalmente all’isola di Roke per avvertire l’Arcimago Ged, ormai maturo e famoso in tutto il mondo, che la magia va scomparendo in tutte le terre del Nord. Nessuno sa il perché, ma gli antichi incantesimi non funzionano più ed i maghi vanno perdendo la conoscenza della “lingua antica” che era alla base della loro forza.
Così, per scoprire da dove provenga questa minaccia che allarga con tanta rapidità la sua sfera d’influenza, Ged ed Arren, l’uomo saggio ed il fanciullo inesperto, partono per un viaggio che sarà una vera e propria odissea: un lungo vagabondare attraverso le isolette e le genti di Earthsea che li porterà ad affrontare pericoli di tutti i generi (briganti, mercanti di schiavi, traversate avventurose in mari burrascosi), fino a giungere all’ultima spiaggia, a Selidor, l’isola all’estremità del mondo, dove risiedono i draghi, ed ancora più oltre, in un luogo desolato da cui nessuno fa mai ritorno.
La spiaggia più lontana conclude il ciclo di Ged, un ciclo di rara bellezza letteraria e di grande coerenza interna, che accoppia ad una poetica narrazione di eroiche gesta, un’allegorica riflessione sull’equilibrio cosmico e sull’essenza della vita.

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— Non ho trovato nessuno da seguire, sulla mia via — disse a voce alta Ged l’arcimago al ragazzo addormentato o al vento vuoto. — Nessun altro che te. E tu devi andare per la tua strada, non per la mia. Eppure il tuo regno sarà in parte mio. Perché io ti ho conosciuto prima. Ti ho conosciuto prima! Mi loderanno per questo, in futuro, più che per quanto ho fatto nell’ambito della magia… Se ci sarà un futuro. Perché prima noi due dobbiamo porci al punto d’equilibrio, al fulcro stesso del mondo. E se io cadrò, tu cadrai, e tutto il resto… Per un poco, per un poco. Nessuna tenebra dura in eterno. E anche allora ci sono le stelle… Oh, ma vorrei vederti incoronato in Havnor, col sole che brilla sulla Torre della Spada e sull’Anello che io e Tenar portammo da Atuan, dalle buie tombe, prima ancora che tu nascessi!

Poi rise e si voltò verso il nord, dicendo a se stesso nella lingua comune: — Un capraio per portare al trono l’erede di Morred! Non imparerò mai?

Dopo, mentre sedeva con la cima nella mano e guardava la gonfia vela tendersi arrossata nell’ultima luce dell’occaso, parlò di nuovo, a bassa voce. — Non vorrei essere a Havnor, né a Roke. È tempo di finirla, col potere. Abbandonare i vecchi giocattoli e andare avanti. È tempo che io ritorni a casa. Vorrei vedere Tenar. Vorrei vedere Ogion, e parlare con lui prima che muoia, nella casa sullo strapiombo di Re Albi. Agogno di camminare sulla montagna, la montagna di Gont, nelle foreste, in autunno, quando le foglie hanno colori vivaci. Non esiste un regno che uguagli le foreste. È tempo che io vi faccia ritorno, in silenzio, e solo. E forse allora imparerei ciò che nessun atto e nessuna arte e nessun potere può insegnarmi, ciò che non ho imparato mai.

Tutto l’occidente sfolgorava in una furia, una gloria rosseggiante, così che il mare appariva cremisi e la vela aveva il colore del sangue; e poi venne quietamente la notte. Per tutta quella notte il ragazzo dormì e l’uomo vegliò, scrutando continuamente davanti a sé nell’oscurità. Non c’erano stelle.

SELIDOR

Destandosi al mattino, Arren vide davanti alla barca, indistinte e basse lungo l’azzurro orizzonte occidentale, le spiagge di Selidor.

Nel palazzo di Berila c’erano vecchie mappe che erano state eseguite ai tempi dei re, quando i mercanti e gli esploratori salpavano dalle Terre Interne e gli stretti erano meglio conosciuti. Una grande mappa del nord e dell’ovest era tracciata in mosaico su due pareti della sala del trono del principe, con l’isola di Enlad in oro e grigio al di sopra del seggio. Arren la vedeva con l’occhio della mente, come l’aveva vista mille volte nella sua infanzia. A nord di Enlad c’era Osskil, e a ovest di questa Ebosskil, e a sud di quest’ultima Semel e Paln. Là finivano le Terre Interne, e non c’era altro che il pallido mosaico verdazzurro del mare vuoto, e qua e là un minuscolo delfino o una balena. Poi, alla fine, dopo l’angolo dove la parete nord incontrava la parete ovest, c’era Narveduen, e più oltre tre isole più piccole. E poi ancora il mare vuoto, all’infinito: fino a quando, al limite della parete e all’estremità della mappa, c’era Selidor: e oltre Selidor non c’era più nulla.

La ricordava chiaramente, con la sua forma ricurva, e una grande baia al centro che si apriva verso est, senza allargarsi molto. Non erano giunti tanto a nord, ma adesso stavano virando verso una cala profonda nel capo più meridionale dell’isola: e là, mentre il sole era ancora basso nella foschia del mattino, sbarcarono.

Così ebbe fine la grande corsa dalle Strade di Balatran all’Isola Occidentale. Il silenzio parve loro strano, quando ebbero tirato in secco la Vistacuta e dopo tanto tempo rimisero piede sulla terraferma.

Ged salì su una duna bassa, incoronata d’erba, con la cresta che sporgeva sul ripido declivio, legata a cornicioni dalle dure radici dell’erba. Quando raggiunse la sommità restò immobile, a guardare verso ovest e verso nord. Arren si fermò accanto alla barca, per calzare le scarpe, che non portava da molti giorni, ed estrasse la spada dalla cassa e la cinse: e questa volta non si chiese se doveva o non doveva farlo. Poi salì sulla duna, accanto a Ged, per guardare quella terra.

Le dune procedevano verso l’interno, basse ed erbose, per circa mezzo miglio; e poi c’erano lagune, fitte di carici e di canne d’acqua salmastra; e più oltre colline basse, giallo-brune e vuote, fino a perdita d’occhio. Selidor era bella e desolata. Non c’era traccia della presenza dell’uomo e delle sue opere. Non si vedevano bestie, e i laghi fitti di giunchi non ospitavano stormi di gabbiani o di oche selvatiche o di altri uccelli.

Tra la duna più esterna e quella successiva c’era una depressione di sabbia pulita, riparata: il sole del mattino splendeva caldo sul pendio occidentale. — Lebannen — disse il mago, che adesso usava il vero nome di Arren, — questa notte non ho potuto dormire, e ora devo farlo. Resta con me, e monta di guardia. — Si sdraiò al sole, perché all’ombra faceva freddo; si coprì gli occhi col braccio, sospirò e si addormentò. Arren gli si sedette accanto. Non vedeva null’altro che i bianchi pendii della depressione, e l’erba delle dune che s’inchinava alla sommità contro l’azzurro nebbioso del cielo, e il giallo sole. Non c’era altro suono che lo smorzato mormorio della risacca; e talvolta il vento, spirando a refoli, smuoveva leggermente le particelle di sabbia con un lieve fruscio.

Arren vide qualcosa che poteva essere un’aquila, altissima nel cielo: ma non era un’aquila. Volteggiò e si tuffò, discese con quel rombo e quell’acuto sibilo delle auree ali spiegate. Atterrò con gli enormi artigli sulla sommità della duna. Controsole, la grande testa era nera e aveva baluginii di fuoco.

Il drago strisciò per un breve tratto giù per il pendio, e parlò. — Agni Lebannen — disse.

Arren, che stava fra il drago e Ged, rispose: — Orm Embar. — E tenne in mano la spada snudata.

Adesso non la sentiva pesante. L’elsa levigata e consunta si adattava bene alla sua mano. La lama era uscita dal fodero agevolmente, quasi con impazienza. Il potere e l’antichità della spada erano dalla sua parte, perché adesso sapeva come farne uso. Era la sua spada.

Il drago parlò di nuovo, ma Arren non poteva comprenderlo. Girò la testa a guardare il compagno addormentato, che non si era svegliato a quel rombo tonante, e disse al drago: — Il mio signore è stanco: dorme.

A quelle parole Orm Embar scese ad avvolgersi sul fondo della depressione. Era pesante, al suolo, non più libero e agile come quando volava, ma c’era un’eleganza sinistra nel modo in cui posava lentamente le grandi zampe unghiute e la curva della coda spinosa. Quando giunse sul fondo piegò le zampe, eresse l’enorme testa e restò immobile, come un drago scolpito sull’elmo di un guerriero. Arren vedeva il suo occhio giallo, a meno di tre braccia da lui, e sentiva il lieve odore di bruciato che gli aleggiava intorno. Non era un fetore di carogna: era asciutto e metallico, e si armonizzava con i fievoli odori del mare e della sabbia salata: un odore pulito e selvatico.

Il sole, levandosi ancora più in alto, investì i fianchi di Orm Embar, che sfolgorò come un drago forgiato di ferro e d’oro.

Ged dormiva ancora, abbandonato, e non faceva caso al drago più di quanto un contadino addormentato badi al suo cane.

Trascorse un’ora; e poi Arren, con un sussulto, si accorse che il mago si era levato a sedere accanto a lui.

— Ti sei abituato ai draghi al punto di addormentarti tra le loro zampe? — chiese Ged, e rise sbadigliando. Poi si alzò e parlò a Orm Embar nella lingua dei draghi.

Prima di rispondere, anche Orm Embar sbadigliò (forse per il sonno, forse per spirito di rivalità). Era uno spettacolo che ben pochi possono vantare di aver visto: le file dei denti bianco-gialli lunghi e affilati come spade, la rossa lingua biforcuta lunga il doppio della statura di un uomo, la fumante caverna della gola.

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