Ged mosse un passo verso di lui. Quasi si somigliavano, così faccia a faccia.
— Tu sei Erreth-Akbe — disse Ged. L’altro lo fissò con fermezza e annuì, ma non parlò.
— Perfino tu, perfino tu devi fare il suo volere. — C’era furore, nella voce di Ged. — Oh mio signore, il più valoroso e il migliore di tutti noi, riposa nel tuo onore e nella morte! — Levate le mani, le riabbassò in un gesto solenne, ripetendo le parole che aveva rivolto alle moltitudini dei morti. Le sue mani lasciarono nell’aria, per un momento, un’ampia scia lucente. Quando questa scomparve, l’uomo in armatura non c’era più, e soltanto il sole brillava abbagliante sulla sabbia.
Ged batté col bastone sulla casa d’ossa, e la casa cadde e svanì. Non rimase nulla, tranne una grande costola che spuntava dalla rena.
Il mago si girò verso Orm Embar. — È qui, Orm Embar? È questo, il luogo?
Il drago aprì le fauci ed emise un immane sibilo ansimante.
— Qui, sull’ultima spiaggia del mondo. Bene! — Poi, impugnando nella mano sinistra il nero bastone di tasso, Ged spalancò le braccia nel gesto dell’invocazione e parlò. Sebbene parlasse nella lingua della Creazione, Arren comprese, finalmente, come devono comprendere tutti coloro che odono quell’invocazione, perché ha potere su tutti: — Ora io ti chiamo qui, mio nemico, davanti ai miei occhi e in persona, e ti lego con la parola che non verrà pronunciata fino alla fine del tempo, e ti comando di venire!
Ma dove avrebbe dovuto pronunciare il nome di colui che chiamava, Ged, disse soltanto: mio nemico.
Seguì un silenzio, come se il suono del mare si fosse dileguato. Ad Arren parve che il sole si offuscasse e si affievolisse, sebbene fosse alto nel cielo sereno. Un’oscurità si stese sulla spiaggia, come se si fossero messi a guardare attraverso un vetro affumicato: direttamente davanti a Ged l’oscurità divenne più intensa, ed era difficile vedere cosa c’era. Era come se non ci fosse nulla, nulla su cui potesse cadere la luce, un’assenza di forma.
E ne uscì un uomo, all’improvviso. Era lo stesso che avevano visto sulla duna, con i capelli neri e le braccia lunghe, alto e snello. Adesso impugnava una lunga verga, o una canna d’acciaio, interamente intarsiata di rune, e la protese verso Ged mentre si girava nella sua direzione. Ma c’era qualcosa di strano nell’espressione dei suoi occhi, come se fossero abbagliati dal sole e non potessero vedere.
— Io vengo — disse, — di mia libera scelta, e a modo mio. Tu non puoi chiamarmi, arcimago. Non sono un’ombra. Sono vivo. Io solo sono vivo! Tu credi di esserlo, ma stai morendo, morendo. Sai cosa impugno? È il bastone del Mago Grigio, colui che ridusse al silenzio Nereger; il Maestro della mia arte. Ma ora sono io, il Maestro. E ne ho abbastanza di giocare con te. — Con queste parole protese di scatto la lama d’acciaio per toccare Ged, che stava immobile come se non potesse muoversi né parlare. Arren era un passo più indietro, e tutta la sua volontà gli imponeva di muoversi: ma non poteva, non poteva neppure portare la mano sull’elsa della spada, e la voce gli si era arrestata nella gola.
Ma al di sopra di Ged e di Arren, al di sopra delle loro teste, immenso e fiammeggiante, il grande corpo del drago balzò, fremendo, e piombò con violenza sull’altro, così che la lama d’acciaio incantata penetrò in tutta la sua lunghezza nel petto corazzato del drago; ma l’uomo venne travolto dal suo peso, schiacciato e bruciato.
Rialzandosi dalla sabbia, inarcando il dorso e battendo le ali, Orm Embar vomitò sprazzi di fuoco e urlò. Tentò di volare, ma non vi riuscì. Freddo e maligno, il metallo gli era entrato nel cuore. Si accovacciò, e il sangue gli sgorgò a fiotti dalle fauci, nero e velenoso e fumante, e il fuoco si spense nelle sue narici finché divennero simili a fosse di cenere. Appoggiò la grande testa sulla sabbia.
Così morì Orm Embar, dov’era morto il suo progenitore Orm, sulle ossa di Orm sepolte nella sabbia.
Ma dove Orm aveva gettato a terra il suo nemico, giaceva qualcosa di orrendo e raggrinzito, come il corpo di un ragno enorme disseccato nella sua tela. Era stato bruciato dall’alito del drago e schiacciato dalle sue zampe artigliate. Eppure, mentre Arren lo guardava, si mosse. Si trascinò via, un po’ lontano dal drago.
La faccia si levò verso di loro. Non vi rimaneva più ombra di bellezza ma solo la rovina, la vecchiaia sopravvissuta alla vecchiaia. La bocca era incartapecorita. Le occhiaie erano vuote, e lo erano da molto tempo. Così Ged e Arren videro il volto vivo del loro nemico.
Si girò. Le braccia arse e annerite si tesero e vi si addensò una tenebra, la stessa oscurità informe che offuscava la luce del sole. Tra le braccia del Distruttore c’era come un’arcata o una porta, indistinta, senza contorni: e oltre quella non c’erano la pallida sabbia e l’oceano ma un lungo pendio di tenebra che scendeva nel buio.
Là entrò la figura sfracellata e strisciante, e quando passò nella tenebra parve improvvisamente alzarsi e muoversi in fretta: e scomparve.
— Vieni, Lebannen — disse Ged, posando la mano destra sul braccio del ragazzo: e avanzarono nella terra arida.
Il bastone di legno di tasso, nella mano del mago, splendeva nell’opaca oscurità con un brillio argenteo. Un altro lieve movimento luminescente attirò lo sguardo di Arren: un guizzo di luce lungo la lama della spada che stringeva sguainata in pugno. Quando l’azione del drago e la sua morte avevano infranto il sortilegio che lo legava, aveva estratto la spada, là sulla spiaggia di Selidor. E lì, sebbene non fosse più di un’ombra, era un’ombra vivente, e portava l’ombra della sua spada.
Non c’era altro chiarore. Era come il crepuscolo inoltrato, sotto le nubi, alla fine di novembre, un’atmosfera cupa e opaca e fredda in cui si poteva vedere ma non chiaramente e non lontano. Arren conosceva quel luogo, le brughiere e i tratti spogli dei suoi sogni disperati; ma gli sembrava di essere più lontano, immensamente più lontano di quanto fosse mai giunto in sogno. Non riusciva a distinguere nulla: vedeva solo che lui e il suo compagno stavano sul pendio di una collina e che davanti a loro c’era un basso muro di pietre, non più alto del ginocchio di un uomo.
Ged gli teneva ancora la mano destra sul braccio. Avanzò, e Arren avanzò insieme a lui: e scavalcarono il muro di pietre.
Informe, il lungo pendio scendeva davanti a loro, digradando nell’oscurità.
Ma lassù, dove Arren aveva creduto di scorgere una pesante coltre di nubi, il cielo era nero, e c’erano le stelle. Le guardò, e gli parve che il cuore gli si rattrappisse, agghiacciato. Erano stelle che non aveva mai visto. Splendevano immote, senza palpiti. Erano le stelle che non sorgono e non tramontano, che non sono mai nascoste dalle nubi e non si affievoliscono mai all’alba. Immobili e minuscole, brillano sulla terra arida.
Ged prese a scendere l’altro versante della collina dell’essere, e passo per passo Arren andò con lui. Il terrore lo invadeva, eppure il suo cuore era così deciso e la sua volontà così ferma che la paura non lo dominava, e non ne era neppure completamente consapevole. Era solo come se qualcosa di profondo, dentro di lui, soffrisse, come un animale chiuso in una stanza e incatenato.
Gli parve che scendessero a lungo quel declivio, ma forse era solo un breve tratto: perché non c’era il trascorrere del tempo, là dove non spiravano i venti e dove le stelle non si muovevano. Poi giunsero nelle vie di una delle città che si trovano in quel luogo, e Arren vide le case con le finestre che non s’illuminavano mai, e su certe soglie stavano i morti, col volto quieto e le mani vuote.
Le piazze del mercato erano deserte. Lì non si vendeva e non si acquistava, non si guadagnava e non si spendeva. Non veniva usato nulla, e nulla veniva fabbricato. Ged e Arren percorrevano soli le vie strette, sebbene talvolta scorgessero una figura all’angolo di un’altra strada, lontana e appena distinguibile nell’oscurità. Quando vide la prima di quelle figure, Arren trasalì e tese la spada per indicarla, ma Ged scosse la testa e proseguì. Poi il ragazzo vide che era una donna e che camminava lentamente, non fuggiva davanti a loro.
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