La voce di Ged aveva un suono ferreo, nella fredda valle ai piedi delle montagne; e il cieco si ritrasse da lui, timoroso. Levò la faccia, e la fioca luce delle stelle l’investì: sembrava che piangesse, ma non aveva lacrime poiché non aveva occhi. La sua bocca si apriva e si chiudeva, piena di tenebra, ma non ne usciva neppure una parola: soltanto un gemito. Infine disse una parola, formandola appena con le labbra contorte, e quella parola era «Vita».
— Ti darei la vita se potessi, Pannocchia. Ma non posso. Tu sei morto. Ma posso darti la morte.
— No! — urlò il cieco, e poi disse «No, no» e si accovacciò singhiozzando, sebbene le sue guance fossero asciutte come il letto sassoso del fiume dove scorreva soltanto la notte, non l’acqua. — Non puoi. Nessuno potrà mai liberarmi. Ho aperto la porta tra i mondi e non posso chiuderla. Nessuno può chiuderla. Non verrà mai richiusa. Mi attira, mi attira. Devo ritornare a quella porta. Devo varcarla e ritornare qui, nella polvere, nel freddo e nel silenzio. Mi risucchia. Non posso lasciarla. Non posso chiuderla. Risucchierà tutta la luce del mondo, alla fine. Tutti i fiumi diventeranno come il Fiume Inaridito. Non esiste un potere che possa chiudere la porta aperta da me!
Era stranissimo, il miscuglio di disperazione e di orgoglio vendicativo, di terrore e di vanità nelle sue parole e nella sua voce.
Ged disse soltanto: — Dov’è?
— Da quella parte. Non lontano. Puoi andarci. Ma non puoi far nulla. Non puoi chiuderla. Anche se esaurissi tutto il tuo potere in quell’atto, non basterebbe. Non c’è nulla che possa bastare.
— Forse — replicò Ged. — Sebbene tu abbia scelto la disperazione, ricorda che noi non l’abbiamo ancora fatto. Portaci là.
Il cieco levò il volto, in cui lottavano visibilmente la paura e l’odio. L’odio trionfò. — No — disse.
A quella risposta, Arren si fece avanti e disse: — Lo farai.
Il cieco restò immoto e muto. Il freddo silenzio e l’oscurità del regno dei morti li circondavano, circondavano le loro parole.
— Tu chi sei?
— Il mio nome e Lebannen.
Ged parlò: — Tu che ti proclami Re, non sai chi è costui?
Pannocchia restò di nuovo in silenzio. Poi disse, ansimando un poco: — Ma è morto… Siete morti. Non potete tornare indietro. Non esiste una via d’uscita. Siete prigionieri qui! — Mentre parlava, il barlume di luce l’abbandonò; e l’udirono voltarsi nella tenebra e allontanarsi da loro, in fretta. — Fammi luce, mio signore! — gridò Arren, e Ged levò il bastone alto sopra la testa, e la bianca luce squarciò quella vecchia tenebra piena di pietre e di ombre, tra le quali l’alta figura curva del cieco si affrettava, schivando gli ostacoli, risalendo il letto del fiume con una strana andatura senza esitazioni. Arren l’inseguì, con la spaga in pugno; e dietro di lui veniva Ged.
Ben presto Arren distanziò il suo compagno; la luce era molto fioca, interrotta dai macigni e dalle tortuosità del letto del fiume, ma il suono dell’andare di Pannocchia e il senso della sua presenza erano una guida sufficiente. Arren si avvicinò lentamente, poiché il terreno diventava più scosceso. Stavano salendo in una gola ripida, intasata dalle pietre; il Fiume Inaridito, restringendosi verso la sorgente, si snodava tra rive a strapiombo. I sassi tintinnavano rotolando sotto i loro piedi e sotto le loro mani, perché dovevano inerpicarsi. Arren sentì le rive restringersi, e con un balzo raggiunse Pannocchia e gli afferrò il braccio, trattenendolo. Erano davanti a una specie di bacino di roccia, largo poco più di un braccio e mezzo, che avrebbe potuto essere una polla se mai ci fosse stata l’acqua; e sopra quello c’era una caotica parete di roccia e scorie. In quella parete c’era una breccia nera, la sorgente del Fiume Inaridito.
Pannocchia non tentò di svincolarsi. Stava immobile, mentre la luce di Ged che si andava avvicinando si ravvivava sulla sua faccia priva di occhi. L’aveva rivolta verso Arren. — Il luogo è questo — disse infine, e una specie di sorriso si formò sulle sue labbra. — Questo è il luogo che cerchi. Lo vedi? Là puoi rinascere. Basta che tu mi segua. Vivrai immortale. Saremo re insieme.
Arren guardò quella scura fonte inaridita, la bocca di polvere, il luogo dove un’anima morta, trascinandosi nella terra e nella tenebra, rinasceva morta: e gli parve abominevole, e disse con voce aspra, lottando contro una nausea mortale: — Si chiuda!
— Si chiuderà — disse Ged, arrivando accanto a loro; e adesso la luce sfolgorava dalle sue mani e dal suo volto come se fosse stata una stella precipitata sulla terra in quella notte interminabile. Davanti a lui la fonte inaridita, la porta, stava spalancata. Era larga e cavernosa, ma era impossibile capire se fosse o no profonda. Non c’era nulla su cui potesse cadere la luce, nulla che l’occhio potesse vedere. Era vuota. Non lasciava passare luce né tenebre, né vita né morte. Non era nulla. Era una via che non conduceva in nessun posto.
Ged alzò le mani e parlò.
Arren stringeva ancora il braccio di Pannocchia; il cieco aveva appoggiato la mano libera sulle rocce della parete. Entrambi stavano muti e immobili, presi dal potere dell’incantesimo.
Con tutte le facoltà della sua arte e con tutta la forza del suo cuore ardente, Ged si sforzò di chiudere quella porta, di rendere nuovamente integro il mondo. E alla sua voce, al comando delle sue mani che plasmavano, le rocce si accostarono, faticosamente, cercando d’incontrarsi, di reintegrarsi. Ma contemporaneamente la luce si affievoliva, si affievoliva, svanendo dalle sue mani e dal suo volto, estinguendosi dal bastone di tasso, finché rimase soltanto un minuscolo barlume. In quella luce fievole, Arren vide che la porta era ormai quasi chiusa.
Il cieco sentì le rocce muoversi sotto le sue mani, le sentì unirsi; e sentì anche l’arte e il potere che si esaurivano… E all’improvviso urlò «No!», si svincolò dalla stretta di Arren, si avventò, e afferrò Ged nella sua stretta cieca e possente. Trascinatolo al suolo sotto il proprio peso, gli serrò le mani intorno alla gola per strangolarlo.
Arren brandì alta la spada di Serriadh e abbatté la lama, con un colpo duro e deciso, sul collo piegato sotto il groviglio dei capelli.
Lo spirito vivente ha un peso nel mondo dei morti, e l’ombra della sua spada ha un filo tagliente. La lama aprì una grande ferita, tranciando la spina dorsale di Pannocchia. Un sangue nero sgorgò a fiotti, illuminato dalla luce della spada.
Ma è inutile uccidere un morto: e Pannocchia era morto, morto da molti anni. La ferita si richiuse, inghiottendo il sangue. Il cieco si erse, altissimo, tendendo le mani brancolanti verso Arren, col volto contratto dal furore e dall’odio come se avesse percepito solo in quel momento chi era il suo vero nemico e rivale.
Era così orribile vedere quella guarigione da un colpo mortale, quell’incapacità di morire, più orribile di ogni morte, che una rabbia di odio crebbe nell’animo di Arren, una furia frenetica: alzata la spada colpì di nuovo, un colpo tremendo, pieno, dall’alto in basso. Pannocchia si accasciò col cranio spaccato e la faccia mutata in una maschera di sangue; tuttavia Arren si avventò subito su di lui e colpì di nuovo prima che la ferita si richiudesse, colpì e colpì per uccidere.
Accanto a lui Ged, sollevandosi faticosamente sulle ginocchia, pronunciò una parola.
Al suono della sua voce Arren si arrestò, come se una mano gli avesse afferrato il braccio che reggeva la spada. Il cieco, che stava incominciando ad alzarsi, restò immobile. Ged si levò in piedi: barcollava un poco. Quando riuscì a tenersi eretto, si voltò verso la parete di roccia.
— Reintegrati! — disse con voce chiara, e col bastone tracciò in linee di fuoco, attraverso la porta di pietre, una figura: la runa Agnen, la Runa della Fine, che chiude le strade e che viene incisa sui coperchi delle bare. E tra i macigni non ci fu più un varco o un vuoto. La porta era chiusa.
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