— Non per quella via — replicò Ged, parlando nel buio. Arren lo scorgeva appena, sebbene fossero fianco a fianco, perché le montagne sotto cui stavano nascondevano metà della luce delle stelle, e sembrava che la corrente del Fiume Asciutto fosse tenebra. — Ma vorremmo imparare la tua via.
Non ebbe risposta.
— Qui ci affrontiamo da pari a pari. Se tu sei cieco, Pannocchia, anche noi siamo nell’oscurità.
Non ci fu risposta.
— Qui non possiamo farti del male; non possiamo ucciderti. Cosa c’è da temere?
— Io non ho paura — rispose la voce nell’oscurità. Poi, lentamente, baluginando un poco come se fosse fatto della stessa luce che talvolta risplendeva sul bastone di Ged, l’uomo apparve, un poco più a monte di loro due, tra le grandi masse indistinte dei macigni. Era alto, con le spalle ampie e le braccia lunghe, come la figura apparsa sulla duna e sulla spiaggia di Selidor; ma era più vecchio. I capelli erano bianchi, e arruffati sulla fronte alta. Così appariva in spirito, nel regno della morte, non bruciato dal fuoco del drago, non deturpato; e tuttavia non era integro. Le occhiaie erano vuote.
— Io non ho paura — disse. — Cosa dovrebbe temere, un morto? — Rise. Il suono della sua risata era strano e falso, nella stretta valle pietrosa ai piedi delle montagne, e per un momento Arren si sentì mancare il respiro. Ma strinse più forte la spada e ascoltò.
— Io non so cosa dovrebbe temere un morto — rispose Ged. — Non la morte, no? Eppure sembra che tu la tema, anche se hai trovato la via per sfuggirle.
— L’ho trovata. Io vivo; il mio corpo vive.
— Non molto bene — osservò il mago, in tono asciutto. — L’illusione potrebbe nascondere la vecchiaia; ma Orm Embar non è stato molto delicato, con quel corpo.
— Posso ripararlo. Conosco i segreti della guarigione e della giovinezza, e non sono illusioni. Chi credi che io sia? Solo perché sei chiamato arcimago mi scambi per un incantatore di villaggio? lo, l’unico tra tutti i maghi ad aver trovato la Via dell’Immortalità, che nessun altro ha mai scoperto!
— Forse non l’abbiamo cercata — disse Ged.
— L’avete cercata. Tutti voi. L’avete cercata e non avete potuto trovarla, e perciò avete fabbricato sagge parole di accettazione e avete parlato dell’equilibrio tra la vita e la morte. Ma erano parole… menzogne per mascherare il vostro insuccesso… per nascondere la vostra paura della morte! Quale uomo non vorrebbe vivere per sempre, se potesse? E io lo posso. Sono immortale. Ho fatto ciò che tu non potevi fare, e perciò sono il tuo padrone: e tu lo sai. Ti piacerebbe sapere come ho fatto, arcimago?
— Mi piacerebbe.
Pannocchia si avvicinò di un passo. Arren notò che, sebbene quell’uomo non avesse gli occhi, i suoi movimenti non erano quelli di un cieco: sembrava che sapesse esattamente dove stavano Ged e Arren e fosse conscio della presenza di entrambi, benché non voltasse mai la testa verso Arren. Forse possedeva una magica seconda vista, come l’udito e la vista che avevano le immagini e i presentimenti: qualcosa che gli dava una consapevolezza, anche se non poteva essere la vera vista.
— Andai a Paln — disse a Ged, — dopo che tu, nel tuo orgoglio, credevi di avermi umiliato e di avermi dato una lezione. Oh, in verità una lezione me l’hai insegnata, ma non quella che intendevi tu! E là mi dissi: Ora ho visto la morte, e non l’accetto. La stupida natura può continuare il suo stupido corso, ma io sono un uomo, migliore della natura, al di sopra della natura. Non seguirò quella strada, non smetterò di essere me stesso! E dopo questa decisione, presi di nuovo la tradizione di Paln ma vi trovai soltanto accenni e frammenti di ciò che cercavo. Allora tornai a intesserla, e la ricostruii, e feci un incantesimo… l’incantesimo più grande che mai sia stato compiuto. Il più grande, e l’ultimo!
— E operando quell’incantesimo, sei morto.
— Sì. Morii. Ebbi il coraggio di morire, per trovare ciò che voi codardi non potreste mai scoprire: la via del ritorno dalla morte. Aprii la porta che era chiusa fin dall’inizio del tempo. E ora vengo liberamente in questo luogo, e liberamente ritorno al mondo dei vivi. Io solo, tra tutti gli uomini di tutti i tempi, sono Signore delle Due Terre. E la porta aperta da me è aperta non soltanto qui ma nelle menti dei vivi, nelle sconosciute profondità del loro essere, dove siamo tutti uno nell’oscurità. Loro lo sanno, e vengono a me. E anche i morti devono venire a me, tutti, perché non ho perso la magia dei viventi: devono scavalcare il muro di pietre quando io lo comando, tutte le anime, i nobili, i maghi, le donne orgogliose: avanti e indietro dalla vita alla morte, al mio ordine. Tutti devono venire a me, i vivi e i morti, a me che morii e vivo!
— Dove vengono a te, Pannocchia? Dove sei, tu?
— Tra i mondi.
— Ma non è né vita né morte. Che cos’è la vita, Pannocchia?
— Potere.
— Che cos’è l’amore?
— Potere — ripeté pesantemente il cieco, aggobbendo le spalle.
— Che cos’è la luce?
— Tenebra!
— Qual è il tuo nome?
— Io non ho nome.
— Tutti, in questa terra, portano il loro vero nome.
— Dimmi il tuo, allora!
— Io mi chiamo Ged. E tu?
Il cieco esitò e disse: — Pannocchia.
— Quello era il tuo nome d’uso, non il tuo vero nome. Dov’è il tuo nome? Dov’è la tua verità? L’hai lasciata a Paln quando sei morto? Hai dimenticato molte cose, Signore delle Due Terre. Hai dimenticato la luce, e l’amore, e il tuo nome.
— Adesso ho il tuo nome e ho potere su di te, Ged l’arcimago… Ged, che eri arcimago quand’eri vivo!
— Il mio nome non ti serve a nulla — disse Ged. — Tu non hai nessun potere su di me. Io sono vivo; il mio corpo giace sulla spiaggia di Selidor, sotto il sole, sulla terra che gira sul suo asse. E quando quel corpo morirà, io sarò qui: ma solo nel nome, nel nome solo, nell’ombra. Non capisci? Non hai mai capito, tu che hai evocato tante ombre dal regno dei morti, che hai chiamato tutte le schiere dei defunti, e perfino il sovrano Erreth-Akbe, il più sapiente di tutti noi? Non hai capito che perfino lui è soltanto un’ombra e un nome? La sua morte non aveva sminuito la vita. E non aveva sminuito lui. Lui è là… là , non qui! Qui non c’è nulla, soltanto polvere e ombre. Là, lui è la terra e la luce del sole, le foglie degli alberi, il volo dell’aquila. È vivo. E tutti coloro che sono morti, vivono: rinascono e non hanno fine, e non ci sarà mai una fine. Per tutti, eccettuato te. Perché tu non volevi la morte. Hai perso la morte, hai perso la vita, per salvare te stesso. Te stesso! Il tuo io immortale! Che cos’è? Chi sei?
— Io sono me stesso. Il mio corpo non imputridirà e non morirà…
— Un corpo vivo soffre, Pannocchia; un corpo vivo invecchia e muore. La morte è il prezzo che paghiamo per la nostra vita e per la vita intera.
— Io non lo pago! Io non posso morire e in quello stesso momento rivivere! Io non posso venire ucciso: sono immortale. Soltanto io sono me stesso in eterno.
— Chi sei, dunque?
— L’Immortale.
— Di’ il tuo nome.
— Il Re.
— Di’ il mio nome. Te l’ho detto soltanto un minuto fa. Di’ il mio nome!
— Tu non sei reale. Tu non hai nome. Io solo esisto.
— Tu esisti: senza nome, senza forma. Non puoi vedere la luce del giorno; non puoi vedere l’oscurità. Hai venduto la verde terra e il sole e le stelle per salvare te stesso. Ma non hai un io. Tutto ciò che hai venduto, quello eri tu. Hai dato tutto per nulla. E perciò adesso cerchi di attirare il mondo a te, tutta la luce e la vita che hai perduto, per colmare il tuo nulla. Ma non è possibile colmarlo. Neppure tutti i canti della terra, neppure tutte le stelle del cielo potrebbero colmare il tuo vuoto.
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