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Ursula Le Guin: La spiaggia più lontana

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Ursula Le Guin La spiaggia più lontana

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La pace che sembrava tornata nel mondo fatato di Earthsea dopo la riconquista da parte di Ged della metà mancante dell’anello magico di Erreth-Akbe nei labirinti oscuri delle tombe di Atuan, è di nuovo in pericolo: Arren, il giovane principe di Enlad, la più antica casata di Earthsea, viene personalmente all’isola di Roke per avvertire l’Arcimago Ged, ormai maturo e famoso in tutto il mondo, che la magia va scomparendo in tutte le terre del Nord. Nessuno sa il perché, ma gli antichi incantesimi non funzionano più ed i maghi vanno perdendo la conoscenza della “lingua antica” che era alla base della loro forza. Così, per scoprire da dove provenga questa minaccia che allarga con tanta rapidità la sua sfera d’influenza, Ged ed Arren, l’uomo saggio ed il fanciullo inesperto, partono per un viaggio che sarà una vera e propria odissea: un lungo vagabondare attraverso le isolette e le genti di Earthsea che li porterà ad affrontare pericoli di tutti i generi (briganti, mercanti di schiavi, traversate avventurose in mari burrascosi), fino a giungere all’ultima spiaggia, a Selidor, l’isola all’estremità del mondo, dove risiedono i draghi, ed ancora più oltre, in un luogo desolato da cui nessuno fa mai ritorno. La spiaggia più lontana conclude il ciclo di Ged, un ciclo di rara bellezza letteraria e di grande coerenza interna, che accoppia ad una poetica narrazione di eroiche gesta, un’allegorica riflessione sull’equilibrio cosmico e sull’essenza della vita.

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Non si muoveva. Era come se stesse acquattato là da ore, o da anni, o da secoli. Era scolpito nel ferro, modellato nella roccia… ma gli occhi, gli occhi in cui Arren non osava guardare, gli occhi simili a olio che spiraleggia sull’acqua, simili a un fumo giallo dietro un vetro, i profondi occhi gialli e opachi lo scrutavano.

Lui non poteva far nulla; quindi si alzò. Se il drago intendeva ucciderlo, l’avrebbe fatto; e se non l’uccideva, lui avrebbe cercato di aiutare Ged, se era possibile aiutarlo. S’incamminò lungo il ruscelletto, per cercare gli zaini.

Il drago non fece nulla. Restò acquattato, immobile, a osservare. Arren trovò gli zaini, riempì le borracce di cuoio nel ruscello, e tornò verso Ged. Dopo pochi passi, il drago si perse nella densa nebbia.

Fece bere Ged, ma non riuscì a svegliarlo. Giaceva inerte e freddo, e la sua testa era pesante sul braccio di Arren. Il volto era cinereo, e il naso e gli zigomi e la vecchia cicatrice spiccavano nitidi. Perfino il suo corpo appariva scarno e riarso, semiconsumato.

Arren restò seduto sulla sabbia umida, reggendo sulle ginocchia la testa del compagno. La nebbia formava intorno a loro una sfera vaga e morbida, più rada verso l’alto. Chissà dove, in quella nebbia, c’erano Orm Embar, il drago morto, e il drago vivo in attesa in riva al ruscello. E chissà dove, dall’altra parte di Selidor, su un’altra spiaggia, stava la Vistacuta , senza provviste. C’erano circa trecento miglia per arrivare a un’altra terra dello Stretto Occidentale; e mille miglia fino al Mare Interno. «Lontano come Selidor», usavano dire a Enlad. Le vecchie storie narrate ai bambini, i miti, incominciavano: «In un tempo lontano come l’eternità, e in un luogo lontano come Selidor, viveva un principe…».

Lui era il principe. Ma nelle vecchie storie, questo era l’inizio: e quella, invece, sembrava la fine.

Non era depresso. Sebbene fosse stanchissimo, e angosciato per il suo compagno, non provava amarezza o rimpianto. Solo, non c’era più nulla che lui potesse fare. Tutto era stato compiuto.

Quando avesse recuperato le forze, pensava, avrebbe cercato di pescare nella risacca con la lenza che aveva nello zaino: perché adesso che la sete si era placata cominciava a sentire i morsi della fame, e non avevano più viveri tranne un pacchetto di pane duro. L’avrebbe conservato, perché se l’inzuppava nell’acqua poteva farne mangiare un po’ a Ged.

Ed era tutto ciò che restava da fare. Oltre questo, non vedeva nulla: la nebbia era tutt’intorno a lui.

Si frugò nelle tasche, mentre stava seduto, insieme a Ged, nella nebbia, per vedere se aveva qualcosa di utile. Nella tasca della tunica c’era un oggetto duro e aguzzo. L’estrasse e lo guardò, sconcertato. Era una piccola pietra, nera, porosa, dura. Fece per gettarla via. Poi ne tastò gli spigoli, li sentì ruvidi e brucianti, e sentì il peso, e comprese cos’era: un frammento di roccia delle montagne del Dolore. Era rimasto impigliato nella sua tasca mentre lui si arrampicava, o mentre si trascinava verso il ciglio del passo portando Ged. La tenne nella mano, quella cosa immutabile, la pietra del dolore. La strinse. E allora sorrise, un sorriso che era insieme mesto e gioioso, conoscendo per la prima volta in vita sua, solo e senza lodi e alla fine del mondo, la vittoria.

Le nebbie si diradarono e si mossero. Lontano, attraverso quelle spire, Arren vide la luce del sole sul mare aperto. Le dune e le colline apparivano e sparivano, incolori, ingrandite dai veli di nebbia. La luce del sole investiva, fulgida, il corpo di Orm Embar, magnifico nella morte.

Il drago nero come il ferro stava accovacciato, immoto, sull’altra riva del ruscello.

Dopo mezzogiorno il sole divenne chiaro e caldo, e bruciò nell’aria l’ultimo confuso vapore della nebbia. Arren si spogliò degli abiti fradici e li lasciò asciugare, rimanendo nudo: portava solo la cintura e la spada. Lasciò che il sole asciugasse le vesti di Ged; ma sebbene il grande flusso benefico e risanatore del calore e della luce si riversasse su Ged, lui restava immobile.

Ci fu un rumore di metallo soffregato contro il metallo, il mormorio raschiante di spade incrociate. Il drago color ferro si era sollevato sulle zampe arcuate. Si mosse e varcò il ruscelletto, con uno smorzato suono sibilante mentre trascinava il lungo corpo sulla sabbia. Arren vide le grinze alle giunture delle spalle, la corazza sui fianchi sfregiata come l’armatura di Erreth-Akbe, e i lunghi denti ingialliti e smussati. In tutto questo, e nei suoi movimenti pesanti e sicuri, e nella sua calma profonda e spaventosa, Arren vide i segni della vecchiaia: un’antichità immensa, di anni incalcolabili. Perciò, quando il drago si fermò a pochi passi dal punto dove giaceva Ged, e Arren si alzò, mettendosi tra i due, chiese, in hardese perché non conosceva la Vecchia Lingua: — Tu sei Kalessin?

Il drago non disse una parola, ma parve sorridere. Poi, abbassando l’immane testa e protendendo il collo, guardò Ged e ne pronunciò il nome.

La sua voce era immensa, e bassa, e aveva l’odore della forgia di un fabbro.

Chiamò ancora, e ancora: e la terza volta Ged aprì gli occhi. Dopo un po’ tentò di levarsi a sedere, ma non ci riuscì. Arren gli s’inginocchiò accanto e lo sostenne. Poi Ged parlò. — Kalessin — disse — senvanissai’n ar Roke! - Dopo che ebbe parlato, non gli rimase più forza: appoggiò la testa sulla spalla di Arren e chiuse gli occhi.

Il drago non rispose. Si accovacciò, come prima, senza muoversi. La nebbia stava ritornando, e offuscava il sole che discendeva verso il mare.

Arren si vestì e avviluppò Ged nel mantello. La marea, che si era ritratta lontano, stava risalendo, e il ragazzo pensò di portare il suo compagno verso il terreno più asciutto, sulle dune, ora che si sentiva ritornare le forze.

Ma quando si chinò per sollevare Ged, il drago protese un’enorme zampa corazzata, quasi sfiorandolo. Gli artigli erano quattro, con uno sperone dietro, come la zampa di un gallo: ma quelli erano speroni d’acciaio, e lunghi come lame di falce.

Sobriost - disse il drago, e fu come un vento di gennaio che spirasse tra le canne gelate.

— Lascia in pace il mio signore. Ci ha salvati tutti, e così facendo ha esaurito le forze e forse anche la vita. Lascialo stare!

Arren parlò rabbiosamente, in tono di comando. Per troppo tempo si era lasciato intimidire e impaurire, e ne aveva abbastanza della paura, se ne era stancato e non voleva più saperne. Era irritato col drago, per la sua forza bruta e per le sue dimensioni enormi, per il suo ingiusto vantaggio. Lui aveva visto la morte, aveva assaporato la morte, e nessuna minaccia aveva più potere su di lui. Il vecchio drago, Kalessin, lo guardò con un lungo occhio dorato e terribile. C’erano eoni ed eoni, nelle profondità di quell’occhio: e c’era il mattino del mondo. Sebbene Arren non lo guardasse, sentiva che lo stava scrutando con profonda e blanda ilarità.

Arw sobriost - disse il drago, e le rugginose narici si dilatarono, lasciando scintillare il fuoco coperto e represso che ardeva all’interno.

Arren teneva il braccio sotto le spalle di Ged, poiché stava per sollevarlo quando il movimento di Kalessin l’aveva arrestato; e adesso sentì la testa del mago girarsi leggermente e udì la sua voce: — Vuol dire: monta qui.

Per un po’, Arren non si mosse. Era una follia. Ma davanti a lui c’era la grande zampa unghiuta, a un passo; e sopra la zampa, l’incavo della giuntura del gomito; e più sopra, la spalla sporgente e la muscolatura dell’ala che spuntava dalla scapola: quattro gradini, una scala. E davanti alle ali e alla prima spina di ferro della cresta dorsale, nella cavità del collo c’era un punto dove poteva sedere a cavalcioni un uomo, o due uomini… se erano impazziti, disperati e disposti a qualunque follia.

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