Il suolo della Terra Arida tremò sotto i loro piedi, e attraverso l’immutabile cielo vuoto corse un lungo rombo rotolante di tuono e si perse in lontananza.
— Per la parola che non verrà pronunciata fino alla fine del tempo io ti ho chiamato. Per la parola che venne pronunciata alla creazione delle cose, ora ti lascio andare. Vai libero! — E, piegatosi sul cieco inginocchiato, Ged gli mormorò all’orecchio, tra i capelli bianchi e scarmigliati.
Pannocchia si alzò. Si guardò intorno, lentamente, con occhi che vedevano. Guardò Arren e poi Ged. Non disse una parola, ma li guardò con occhi cupi. Non c’era ira sul suo volto, né odio, né angoscia. Lentamente si voltò, si allontanò lungo il letto del Fiume Inaridito, e ben presto scomparve.
Non c’era più luce sul bastone di Ged o sul suo volto. Stava nella tenebra. Quando Arren gli si avvicinò, si afferrò al suo braccio per sorreggersi. Per un momento, un singhiozzo convulso lo squassò. — È fatto — disse. — È tutto finito.
— È fatto, mio amato signore. Dobbiamo andare.
— Sì. Dobbiamo andare a casa.
Ged appariva frastornato o esausto. Seguì Arren lungo il letto del fiume, lentamente, incespicando, procedendo a fatica tra le pietre e i macigni. Arren non lo lasciò. Quando le rive del Fiume Inaridito divennero più basse e il suolo meno scosceso, si voltò nella direzione da cui erano venuti, il lungo declivio informe che conduceva in alto, nell’oscurità. Poi si girò di nuovo.
Ged non disse nulla. Appena si erano fermati, si era lasciato cadere su un macigno di lava, sfinito, a testa bassa.
Arren sapeva che la strada da cui erano venuti era chiusa, per loro. Potevano soltanto andare avanti. Dovevano percorrere l’intera strada. Troppo lontano non è lontano abbastanza , pensò. Alzò gli occhi verso i neri picchi, freddi e silenti sotto le immobili stelle terrificanti; e ancora una volta l’ironica e beffarda voce della sua volontà parlò dentro di lui, implacabile: — Intendi fermarti a metà strada, Lebannen?
Si accostò a Ged e disse, dolcemente: — Dobbiamo proseguire, mio signore.
Ged non disse nulla, ma si alzò.
— Dobbiamo passare tra le montagne, credo.
— Tu conosci la strada, ragazzo — replicò Ged, con un bisbiglio rauco. — Aiutami.
Perciò si avviarono su per i pendii di polvere e di scorie, tra le montagne, e Arren aiutò il suo compagno come poteva. Era buio, nelle gole, e lui doveva cercare la strada a tentoni, ed era difficile, nel contempo, sostenere Ged. Camminare era faticoso; ma quando dovevano inerpicarsi, via via che i declivi diventavano più erti, era addirittura penoso. Le rocce erano scabre, e scottavano le mani come ferro fuso. Eppure faceva freddo, sempre più freddo, via via che salivano. Il contatto di quella terra era un tormento. Scottava come carboni ardenti: un fuoco bruciava entro le montagne. Ma l’aria era sempre fredda e sempre buia. Non si udiva il minimo suono, e non spirava alito di vento. Le rocce aguzze si sgretolavano sotto le loro mani, cedevano sotto i loro piedi. Neri e ripidi, gli speroni e gli abissi salivano davanti a loro e discendevano accanto a loro nella tenebra. Più indietro, laggiù, il regno dei morti era invisibile. Più avanti, lassù, i picchi e le rocce si stagliavano contro le stelle. E nulla si muoveva in tutta la lunghezza e l’ampiezza di quelle montagne nere, eccettuate le due anime mortali.
Spesso Ged inciampava o metteva il piede in fallo, per la stanchezza. Respirava sempre più a fatica, e quando le sue mani urtavano contro le rocce soffocava gemiti di dolore. Sentirlo lamentarsi era un tormento, per il cuore di Arren. Lui cercava d’impedire che cadesse: ma spesso la via era troppo stretta perché potessero procedere affiancati, oppure lui doveva andare avanti per cercare appigli sicuri. E alla fine, su un alto pendio che saliva verso le stelle, Ged scivolò e cadde carponi, e non si rialzò.
— Mio signore — disse Arren, inginocchiandosi accanto a lui, e poi pronunciò il suo nome: — Ged.
L’altro non si mosse, non rispose.
Arren lo raccolse tra le braccia e lo portò su per quell’alto pendio. Alla sommità c’era un breve tratto di terreno pianeggiante. Arren adagiò il fardello e si lasciò cadere al suolo accanto a lui, sfinito e sofferente, senza speranza. Era la sommità del passo tra i due picchi neri, verso il quale si era diretto faticosamente. Non si poteva procedere: all’estremità del tratto pianeggiante c’era il ciglio di un precipizio. Più oltre la tenebra si stendeva all’infinito, e le minuscole stelle pendevano immobili nel nero abisso del cielo.
La resistenza può durare più a lungo della speranza. Arren si trascinò avanti, ostinatamente, quando riuscì a farlo. Guardò oltre il ciglio della tenebra. E sotto di sé, poco più in basso, vide la spiaggia di sabbia eburnea; le onde bianche e color ambra vi si frangevano tra la spuma, e dall’altra parte del mare il sole stava tramontando in una foschia dorata.
Arren si voltò verso la tenebra. Tornò indietro. Sollevò Ged come poteva e si trascinò finché non poté più andare avanti. Là tutte le cose cessarono di esistere: la sete, e la sofferenza, e l’oscurità, e la luce del sole, e il suono delle onde che si frangevano.
Quando Arren si svegliò, una nebbia grigia nascondeva il mare e le dune e le colline di Selidor. I frangenti uscivano dalla nebbia mormorando in un rombo smorzato, e mormorando vi si ritraevano. C’era l’alta marea, e la spiaggia era molto più stretta di quando vi erano giunti; le ultime piccole linee di spuma delle onde avanzavano fino a lambire la mano sinistra protesa di Ged, che giaceva prostrato sulla rena. Aveva le vesti e i capelli bagnati, e gli abiti di Arren aderivano gelidi al suo corpo come se il mare li avesse investiti. Non c’era traccia del cadavere di Pannocchia. Forse le onde l’avevano trascinato via, verso il largo. Ma dietro di sé, quando girò la testa, Arren scorse, immerso e indistinto nella nebbia, il grigio corpo di Orm Embar, simile a una torre diroccata.
Si alzò, rabbrividendo per il freddo: stentava a reggersi in piedi, per il gelo e l’intorpidimento e la debolezza che gli dava le vertigini, la debolezza di chi è rimasto disteso troppo a lungo senza muoversi. Barcollava come un ubriaco. Appena tornò padrone dei propri movimenti, si accostò a Ged e riuscì a trascinarlo un po’ più in alto, sulla sabbia, fuori dalla portata delle onde: ma fu tutto quello che poté fare. Ged gli sembrava molto freddo e molto pesante: l’aveva portato oltre il confine fra la morte e la vita, ma forse invano. Accostò l’orecchio al petto di Ged, ma non riuscì a dominare il tremito delle membra e il battito dei denti per poter captare le pulsazioni del cuore. Si alzò di nuovo e cercò di pestare i piedi per riscaldarsi un po’ le gambe; e alla fine, tremando e trascinandosi come un vecchio, andò in cerca dei loro zaini. Li avevano lasciati cadere in riva a un ruscelletto che scendeva dalla cresta delle colline, molto tempo prima, quando erano giunti alla casa di ossa. Era il ruscello che lui cercava, perché non riusciva a pensare ad altro che all’acqua, l’acqua pura.
Prima di quanto si aspettasse incontrò il ruscello, che calava sulla spiaggia e si snodava tortuoso diramandosi come un albero d’argento al limite del mare. Si gettò al suolo e bevve, con la faccia e le mani immerse nell’acqua, aspirando quell’acqua nella bocca e nello spirito.
Infine si levò a sedere, e così vide, sull’altra sponda del ruscello, un drago immenso.
La testa color ferro, chiazzata dalla rossa ruggine delle narici e delle occhiaie e delle guance, era sospesa davanti a lui, quasi sopra di lui. Gli artigli affondavano nella sabbia bagnata e molle, sul bordo del corso d’acqua. Le ali, ripiegate, erano parzialmente visibili, come vele, ma il lungo corpo scuro si perdeva nella nebbia.
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