Neil Gaiman - Nessun dove

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Sotto le vie di Londra c’è un mondo che la maggior parte delle persone non riesce neppure a immaginare. Una città di mostri e di santi, di assassini e di angeli, cavalieri in armatura e pallide ragazze in velluto nero: questa è la Londra di chi è precipitato tra le fenditure. Richard Mayhew è un giovane uomo d’affari che sta per scoprire l’altra città: un singolo atto di generosità lo catapulta fuori dalla sua tranquilla e prevedibile esistenza e lo fa entrare in un mondo che è al tempo stesso stranamente familiare e incredibilmente bizzarro. C’è una ragazza di nome Porta e delle persone che vogliono ucciderla. C’è un angelo che si chiama Islington che vive in un salone illuminato dalle candele, e Old Bailey, che abita sui tetti. Ci sono ratti intelligenti e il signor Parla-coi-Ratti, e un Conte che tiene il proprio seguito sulla carrozza di un treno della metropolitana. Un ponte nella notte sta a guardia della perigliosa via verso Knightsbridge, dove vivono le persone delle fogne, la Bestia nel labirinto, e si scoprono pericoli e piaceri che superano la più fervida immaginazione. E Richard, che vorrebbe solo tornarsene a casa, troverà ad attenderlo uno strano destino. Laggiù, sotto le strade della sua città, in quel luogo chiamato Nessun.

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Hunter camminava davanti a loro, a qualche passo di distanza. Anche lei non diceva nulla.

Dopo un po’ raggiunsero la fine di Down Street. La strada terminava con un cancello, un ampio passaggio ciclopico — costruito con enormi blocchi di pietra grezza.

Quel cancello l’hanno costruito i giganti, pensò Richard, senza però saper dire come avesse avuto quell’intuizione.

Da molto tempo il cancello vero e proprio si era arrugginito e sgretolato. Ne potevano ancora vedere dei frammenti nel fango sotto i loro piedi o inutilmente penzolanti dal cardine arrugginito a lato dell’ingresso. Il cardine era più alto di Richard.

Il Marchese fece cenno a Hunter di fermarsi. Si inumidì le labbra e disse, «Questo cancello segna la fine di Down Street e l’inizio del labirinto. Oltre il labirinto attende l’Angelo Islington. Nel labirinto c’è la Bestia.»

«Io ancora non capisco» disse Richard. «Islington. L’ho incontrato sul serio. Esso… Egli… Lui è un angelo. Voglio dire… un vero angelo.»

Il Marchese sorrise, senza ironia. «Quando gli angeli vanno a male, Richard, marciscono più di chiunque altro. Ricordati che anche Lucifero era un angelo.»

Hunter fissò Richard con occhi color marron glacé. «Il luogo che hai visitato tu è la cittadella di Islington, e la sua prigione. Non può lasciarla.»

Il Marchese la guardò. «Presumo che il labirinto e la Bestia siano qui per scoraggiare i visitatori.»

Lei chinò il capo. «Così presumo anch’io.»

Richard si rivolse al Marchese, eruttando tutta la rabbia, l’impotenza e la frustrazione in un’unica iraconda esplosione. «Perché diamine le rivolge la parola? Perché quella sta ancora con noi? È una traditrice — ha cercato di farci credere che il traditore era lei.»

«E ti ho salvato la vita, Richard Mayhew» disse Hunter, pacata. «Molte volte. Sul ponte. Allo Spazio Vuoto. Sulla passerella là sopra.»

Lo guardò negli occhi, e fu Richard a distogliere lo sguardo.

Qualcosa echeggiò attraverso i tunnel: un muggito, o un ruggito. I peli sulla nuca di Richard si drizzarono. Era molto lontano, ma quello era l’unico aspetto della cosa che poteva dargli un minimo di conforto. Conosceva quel suono. L’aveva già udito nei suoi sogni. Non pareva né un toro né un cinghiale. Sembrava un leone. Sembrava un drago.

«Il labirinto è uno dei luoghi più antichi di Londra Sotto» spiegò il Marchese. «Prima che re Lud fondasse il villaggio sulle paludi del Tamigi, qui c’era un labirinto.»

«Nessuna Bestia, però» disse Richard.

«Non a quel tempo.»

Richard esitò. Il ruggito lontano si fece udire di nuovo. «Io… io credo di avere sognato della Bestia» disse.

Il Marchese inarcò un sopracciglio. «In che tipo di sogni?»

«Brutti» rispose Richard.

Il Marchese ci pensò sopra, gli occhi che guizzavano. Poi disse, «Senti, Richard, io porto Hunter. Se tu vuoi aspettare, be’, nessuno ti accuserà di codardia.»

Richard scosse il capo. A volte non hai alternative. «Non torno sui miei passi. Non ora. Hanno preso Porta.»

«D’accordo» disse il Marchese. «Bene, allora. Andiamo?»

Le perfette labbra di zucchero caramellato di Hunter si contorsero in un ghigno. «Dovete essere pazzi per andare là dentro» disse. «Senza il pegno dell’angelo non riuscirete mai a trovare la strada. Non supererete mai il cinghiale.»

Il Marchese infilò la mano sotto la coperta poncho e ne estrasse la statuina di ossidiana presa nello studio del padre di Porta. «Intendi uno di questi?» domandò.

In quel momento il Marchese pensò che molto di quello che aveva passato la settimana precedente era compensato dall’espressione sul viso di Hunter. Superarono il cancello, entrando nel labirinto.

Porta aveva le mani legate dietro la schiena e mister Vandemar la spingeva avanti appoggiandole una manona sulla spalla. Mister Croup li precedeva a passi rapidi, tenendo ben alto e visibile il talismano di ossidiana preso alla ragazza, e scrutava nervosamente da una parte e dall’altra, come una donnola sul punto di razziare un pollaio.

Il labirinto in sé era follia pura. Era costruito di frammenti dispersi di Londra Sopra: vicoli, strade, corridoi e fognature caduti nelle fenditure nel corso dei millenni e entrati a far parte del mondo del perduto e del dimenticato.

Camminavano sui ciottoli e nel fango, nello sterco (sterco di cavallo e non solo) e su assi di legno marcio. Era un luogo in perenne trasformazione, e ogni sentiero si divideva, girava e si ripiegava su se stesso.

Mister Croup senti lo strattone del talismano e lasciò che lo portasse dove voleva.

Stavano percorrendo un minuscolo passaggio che un tempo aveva fatto parte di una «rookery» vittoriana (dei bassifondi composti in parti uguali di furto e gin, squallore da due soldi e sesso da tre), quando la udirono tirar su col naso e sbuffare da qualche parte, vicino. Poi ruggì.

Mister Croup esitò. In fondo al vicolo si fermò e si guardò intorno di sottecchi, prima di fare strada agli altri scendendo qualche gradino che portava a un lungo tunnel di pietra che una volta, all’epoca dei Templari, correva attraverso delle paludi, le Fleet Marshes.

«Hai paura, vero?» gli disse Porta.

Lui la guardò in cagnesco. «Tieni la lingua a posto.»

Lei sorrise, anche se di sorridere proprio non aveva voglia. «Hai il terrore che il tuo talismano salvacondotto non ti permetta di superare la Bestia. Cosa stai progettando? Di rapire Islington? Di venderci entrambi al migliore offerente?»

«Zitta» disse mister Vandemar.

Ma mister Croup si limitò a ridacchiare sotto i baffi, e in quel momento Porta seppe che l’Angelo Islington non era suo amico.

Allora cominciò a gridare. «Ehi! Bestia! Siamo qui! Iuu-huu! Signora Bestia!»

Mister Vandemar le diede uno schiaffo sulla testa e la sbatté contro il muro.

«Ti avevo detto di stare zitta» disse, dolcemente.

Sentiva in bocca il sapore del sangue e sputò rosso sul fango. Quindi apri la bocca per mettersi di nuovo a strillare. Mister Vandemar, anticipando la mossa, si era tolto di tasca un fazzoletto e glielo ficcò tra i denti. Lei cercò di mordergli un dito, ma la cosa non lo impressionò per niente.

«Adesso starai zitta» le disse.

Mister Vandemar era molto orgoglioso del suo fazzoletto, che era macchiato di verde, nero e marrone, e in origine, negli anni Venti, era appartenuto a un venditore di tabacco da fiuto alquanto sovrappeso morto di infarto e sepolto con il fazzoletto nel taschino. Ogni tanto mister Vandemar ci trovava ancora sopra qualche frammento di mercante di tabacco, ma ciò nonostante secondo mister Vandemar era comunque un bel fazzoletto.

Continuarono in silenzio.

Nel suo salone alla fine del labirinto, che era la sua cittadella e la sua prigione, l’Angelo Islington stava facendo una cosa che non faceva da molte migliaia di anni.

Ecco cosa stava facendo.

Cantava.

Aveva una voce bellissima, melodiosa e dolce. Come tutti gli angeli era perfettamente intonato.

Islington stava cantando una canzone di Irving Berlin. E mentre cantava, ballava, con movimenti e passi lenti e impeccabili, nel suo Gran Salone pieno di candele.

Heaven, cantava l’angelo, I’m in Heaven
son felice al punto che non lo so dir
perché ciò che voglio riuscirò ad aver
se ballando manterrò il mio savoir-faire.
Heaven, I’m in Heaven,
e i problemi spariranno tutti in fretta
quando avrò ottenuto il posto che mi spetta…

Smise di danzare quando raggiunse la porta nera nella sua stanza, la porta fatta di silice e argento annerito. Con infinita lentezza fece scorrere le dita lungo la porta, appoggiando la guancia sulla superficie gelida.

Poi continuò, più pacatamente, a cantare.

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