George Martin - Il trono di spade

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In una terra fuori dal mondo, dove le estati e gli inverni possono durare intere generazioni, sta per esplodere un immane conflitto. Sul Trono di Spade, nel Sud caldo e opulento, siede Robert Baratheon. L’ha conquistato dopo una guerra sanguinosa, togliendolo all’ultimo, folle re della dinastia Targaryen, i signori dei draghi. Ma il suo potere è ora minacciato: all’estremo Nord la Barriera — una muraglia eretta per difendere il regno da animali primordiali e, soprattutto, dagli Estranei — sembra vacillare. Si dice che gli Estranei siano scomparsi da secoli. Ma se è vero, chi sono quegli esseri con gli occhi così innaturalmente azzurri e gelidi, nascosti tra le ombre delle foreste, che rubano la vita o il sonno a chi ha la mala di incontrarli?

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Lui le gettò uno sguardo, senza rallentare. «I mantelli d’oro lo portano al tempio.»

«Ma chi?» chiese Arya continuando a correre.

«Il Primo Cavaliere. Gli tagliano la testa. Così dice Buu.»

Le ruote di un carro avevano lasciato solchi profondi nel fango. Il ragazzo li saltò, ma Arya non li vide. Inciampò e cadde bocconi scorticandosi un ginocchio contro una pietra e picchiando con forza le mani, protese nel tentativo di attutire la caduta. Ago le si impigliò tra le gambe. Singhiozzando, si mise in ginocchio. Il pollice della sua mano sinistra era coperto di sangue. Se lo succhiò e scoprì che metà unghia, spezzata di netto, era sparita. Le sue mani pulsavano e anche il ginocchio era insanguinato.

«Largo! Fate largo!» urlò qualcuno dall’altra parte della strada. «Fate largo ai miei lord di Redwyne!» Arya riuscì a togliersi dalla strada appena un istante prima di essere schiacciata. Quattro armigeri montati su enormi cavalli passarono al galoppo. Indossavano mantelli a scacchi blu e borgogna. Dietro di loro, affiancati su identici purosangue castani, venivano due giovani nobili, identici anche loro. Dal ponte coperto della Fortezza Rossa, Arya li aveva visti cento volte: i gemelli Redwyne, ser Horas e ser Hobber, signorotti dai capelli rossi e dalle facce larghe piene di lentiggini. Sansa e Jeyne Poole li chiamavano ser Orrore e ser Fetore e ridacchiavano tutte le volte che li vedevano. Ma ad Arya non parvero affatto divertenti.

Tutti stavano muovendosi nella stessa direzione, tutti volevano capire il perché di quei rintocchi. Le campane parevano suonare più forte, adesso, in modo più dolente, più imperioso. Arya si mescolò alla folla che avanzava. Nel punto in cui l’unghia le si era spezzata in due, il suo pollice era un inferno di dolore. Dovette mordersi il labbro per non piangere. Tutto attorno a lei, turbinavano voci eccitate.

«…il Primo Cavaliere del re, lord Stark. Lo stanno portando al tempio di Baelor.»

«Avevo sentito dire che era morto.»

«Lo sarà presto, molto presto. Una moneta d’argento che gli tagliano la testa. Chi ci sta?»

«Era ora. Quel maledetto traditore.» L’uomo sputò con disprezzo.

Arya cercò di ritrovare la voce. «Lui non ha mai…» prese a dire, ma era solo una bambina e non le badavano.

«Idioti! Non gliela tagliano mica la testa a lui. Da quando si fanno fuori i traditori sui gradini del Grande Tempio?»

«Be’, certo non gli danno gli unguenti di cavaliere. Ho sentito che è Stark che l’ha ammazzato al vecchio re Robert. Gli ha tagliato la gola nei boschi. E quando l’hanno trovato, lì lui stava, bello e calmo e tranquillo, a dire che l’aveva scannato un cinghiale a sua maestà.»

«Ah, non è vero. È stato suo fratello ad ammazzarlo. Quel Renly. Con le corna d’oro dell’elmo.»

«Chiudi quella bocca di menzogne, donna. Non sai quello che dici, il giovane lord è un valido uomo.»

Quando raggiunsero la strada delle Sorelle, la gente era compressa spalla a spalla. Arya si lasciò trascinare dalla corrente umana, sempre più avanti, sempre più in alto, verso la sommità della collina di Visenya.

La piazza di marmo bianco era invasa da una folla compatta, vociante. Tutti allungavano il collo nel tentativo di vedere, si ammucchiavano gli uni sugli altri per avvicinarsi al Grande Tempio di Baelor. Le campane erano assordanti.

Arya sgusciò nella calca, tuffandosi tra le gambe dei cavalli, spada di legno stretta a sé. Dal centro della folla, tutto quello che vedeva erano braccia, gambe, ventri e, verso il fondo della piazza, le sette snelle torri del tempio. Arya pensò di arrampicarsi sul retro di un carro in modo da vedere meglio. Un’idea che erano stati in parecchi altri ad avere. Il carrettiere inveì e li fece sloggiare tutti a colpi di frusta.

Arya si sentì pervadere da un’angoscia frenetica. Nell’avanzare a forza, finì a ridosso di un piedistallo di pietra. Il suo sguardo si alzò e incontrò gli occhi marmorei di Baelor il Benedetto, il resepton. Si infilò la spada di legno nella cintura e cominciò a dare la scalata alla statua. La falange ferita del suo pollice lasciò sul marmo scie di sangue, ma alla fine Arya si sistemò tra i piedi dell’antico re.

Fu allora che vide suo padre.

Lord Eddard era in piedi sul pulpito del sommo septon, appena fuori dai portali del tempio, sostenuto da due guardie dai mantelli dorati. Indossava un elegante farsetto di velluto grigio con il lupo bianco degli Stark ricamato sul petto e una cappa di lana grigia bordata di pelliccia, ma appariva più magro di quanto Arya lo ricordasse e il suo volto ossuto era scavato dalla sofferenza. Senza aiuto, non riusciva a reggersi in piedi. L’ingessatura era piena di fenditure, quasi cadeva a pezzi.

C’era il sommo septon in persona alle sue spalle, un uomo tozzo, grigio per l’età ed esageratamente grasso, drappeggiato di lunghe vesti bianche, con in testa una gigantesca corona d’oro e cristallo. Ogni volta che si muoveva, la sua testa e il suo volto erano inondati di sfumature arcobalenanti.

Raccolto di fronte ai portali del tempio, era ammassato un gruppo di cavalieri e di alti lord. Tra loro, in piena preminenza, s’imponeva Joffrey, addobbato di seta e raso porpora ricamati con cervi saltanti e leoni ruggenti, la corona di re sul capo. La regina madre gli era al fianco, abito nero a lutto con tagli decorativi porpora, i capelli trattenuti da un velo disseminato di diamanti neri. Arya riconobbe il Mastino, mantello bianco come la neve su armatura d’acciaio scuro. Lo attorniavano quattro cavalieri della Guardia reale. Vide Varys l’eunuco: in soffici pantofole di velluto e ricca tunica damascata, pareva quasi fluttuare tra tutti loro. Da un lato, Arya credette di riconoscere l’ometto dalla barba appuntita che un tempo aveva duellato per la mano di sua madre.

E proprio in mezzo a quel gruppo, ecco Sansa, vestita di seta azzurra come il cielo, i lunghi capelli neri lavati di fresco e arricciati, braccialetti d’argento ai polsi. Arya sentì il furore crescerle dentro. Che ci faceva lì sua sorella? Cos’aveva da apparire tutta contenta?

Un lungo sbarramento di lancieri dai mantelli dorati tratteneva la folla. Li comandava un uomo massiccio protetto da un’elaborata armatura, acciaio nero laccato e filigrana d’oro. Anche sul suo ampio mantello c’era il lucore metallico dell’oro.

La campana cessò di suonare. Lentamente, sulla piazza calò il silenzio. Suo padre sollevò la testa e cominciò a parlare, ma la sua voce era così esile, così incerta, da risultare udibile a stento. Dietro ad Arya, furono in molti a protestare. «Che cosa?» «Voce!» L’uomo massiccio con l’armatura nera e oro si avvicinò a suo padre e lo pungolò rudemente. “Lascialo stare” avrebbe voluto gridare Arya, ma sapeva che nessuno le avrebbe dato retta. Si morse il labbro.

Suo padre alzò la voce e ricominciò da capo: «Sono Eddard Stark, lord di Grande Inverno e Primo Cavaliere del re». La sua voce si dispiegò sulla piazza. «Sono venuto al vostro cospetto per confessare il mio tradimento di fronte agli occhi degli dei e degli uomini.»

«No!» gemette Arya. Sotto di lei, la folla si mise a urlare. L’aria si riempì di insulti, di oscenità. Sansa aveva affondato il viso tra le mani.

«Ho tradito la fede del mio re e la fiducia del mio amico Robert.» Per farsi udire al disopra del putiferio, lord Eddard alzò la voce ancora di più. «Avevo giurato di difendere e proteggere i suoi figli, ma ancora prima che il suo sangue fosse diventato freddo, ho complottato per deporre suo figlio, in modo da poter prendere il trono io stesso. Che il sommo septon e Baelor il Benedetto e i sette dei mi siano testimoni della verità di ciò che dico: Joffrey Baratheon è il vero erede del Trono di Spade e, per grazia di tutti gli dei, lord dei Sette Regni e protettore del reame.»

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