George Martin - Il trono di spade

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In una terra fuori dal mondo, dove le estati e gli inverni possono durare intere generazioni, sta per esplodere un immane conflitto. Sul Trono di Spade, nel Sud caldo e opulento, siede Robert Baratheon. L’ha conquistato dopo una guerra sanguinosa, togliendolo all’ultimo, folle re della dinastia Targaryen, i signori dei draghi. Ma il suo potere è ora minacciato: all’estremo Nord la Barriera — una muraglia eretta per difendere il regno da animali primordiali e, soprattutto, dagli Estranei — sembra vacillare. Si dice che gli Estranei siano scomparsi da secoli. Ma se è vero, chi sono quegli esseri con gli occhi così innaturalmente azzurri e gelidi, nascosti tra le ombre delle foreste, che rubano la vita o il sonno a chi ha la mala di incontrarli?

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Un septon che passava di lì le scoccò un’occhiata piena di rimprovero. «È questo il posto migliore per prenderli» gli disse Arya ripulendosi e raccogliendo da terra la spada di legno. «Vengono a beccare le briciole di pane.» L’altro proseguì in fretta per la sua strada. Lei si legò il piccione alla cintura. Più avanti lungo la via, un uomo spingeva un carretto a due ruote carico di dolciumi; i profumi parlavano di mirtilli, limoni, albicocche. Il suo stomaco brontolò. «Posso avere uno di quelli?» si ritrovò a dire. «Un limone, o… o uno qualunque.»

L’uomo del carretto la squadrò da capo a piedi. Chiaramente, quello che vide non gli piacque. «Tre monete di rame.»

Arya picchiò l’estremità della spada di legno contro il tacco dello stivale. «Ti do questo grasso piccione in cambio.»

«Dallo agli Estranei, il tuo piccione» ribatté l’uomo del carretto.

I dolci erano ancora caldi, appena usciti dal forno. L’odore le faceva venire l’acquolina in bocca, ma non le aveva, tre monete di rame. Non ne aveva nemmeno una. «Vedi con i tuoi occhi» le aveva detto Syrio. L’uomo del carretto era basso, con una pancetta prominente tonda tonda, e quando si muoveva, sembrava zoppicare leggermente dalla gamba sinistra. Se avesse preso uno di quei dolci e fosse filata via come il vento, mai sarebbe riuscito a prenderla. Invece quello disse: «Tieni lontane quelle tue manacce sporche. I mantelli dorati sanno cosa fare con i piccoli topi di fogna come te, poco ma sicuro».

Arya gettò uno sguardo teso dietro di sé. Fermi all’imboccatura di un vicolo, c’erano due armigeri della Guardia cittadina. Le loro cappe arrivavano quasi a terra, lana pesante tinta d’oro, maglia di ferro, stivali e guanti neri. Uno dei due era armato di spada, l’altro impugnava una mazza di ferro. Dopo un ultimo sguardo a tutte quelle leccornie, Arya si allontanò in fretta. I mantelli dorati non le avevano prestato alcuna particolare attenzione, ma la loro sola vista le aveva dato una stretta alla bocca dello stomaco. Arya aveva continuato a rimanere quanto più lontano possibile dal castello, ma anche da lontano poteva vedere, sulla sommità delle mura, teste mozzate. Su ognuna di loro, incessante, continuava l’assalto dei corvi, il nero turbinare degli insetti. Nel quartiere delle Pulci si diceva che i mantelli dorati si erano messi con i Lannister, che il loro comandante era stato elevato al rango di lord e che aveva ricevuto terre sul Tridente e un seggio nel Concilio ristretto.

Arya aveva udito anche altre cose, cose paurose, che parevano non avere affatto senso. Alcuni dicevano che il lord suo padre aveva ucciso re Robert ed era stato a sua volta ucciso da lord Renly. Altri sostenevano, invece, che era stato Renly a uccidere il re in una rissa tra ubriachi. Per quale altra ragione il fratello del re sarebbe fuggito nella notte come un ladro? Secondo un’altra versione, il re era stato ucciso durante una caccia da un enorme cinghiale; qualcuno però affermava che era crepato di viscere scoppiate mentre mangiava l’enorme cinghiale. No, il re era effettivamente crepato a tavola, ma solo perché Varys il Ragno tessitore l’aveva avvelenato. No, no: era stata la regina ad avvelenarlo. No, no, no: è morto di peste. Macché: si è strozzato con una lisca di pesce.

Tutte le storie si trovavano d’accordo su una cosa: re Robert era morto. Le campane delle sette torri del Grande Tempio di Baelor avevano suonato per un giorno e una notte, senza sosta, e i rimbombanti rintocchi della loro sofferenza avevano avvolto la città in una marea di bronzo. Le campane suonavano così solo quando moriva un re, aveva detto ad Arya il garzone di un tintore.

L’unica cosa che lei voleva era tornare a casa, ma andarsene da Approdo del Re non era facile quanto aveva sperato. Voci di guerra erano sulla bocca di tutti e i mantelli dorati erano numerosi sulle mura quanto le pulci… che aveva addosso lei, per esempio. Aveva dormito nel quartiere delle Pulci, sui tetti, dentro le stalle, dovunque fosse riuscita a trovare un posto per sdraiarsi, e non aveva impiegato molto a rendersi conto che quel rione meritava ampiamente la sua denominazione.

Dopo la fuga dalla Fortezza Rossa, Arya era passata ogni giorno di fronte alle sette porte di accesso alla città, una dopo l’altra. La Porta del drago, la Porta del leone e la Porta vecchia erano chiuse, sbarrate. La Porta del fango e la Porta degli dei erano aperte, ma solo per coloro che nella città volevano entrare. Le guardie non lasciavano uscire nessuno. Quelli che invece potevano uscire, erano costretti a farlo o dalla Porta del re o dalla Porta di ferro, ma c’erano armigeri Lannister, cappe porpora e oro ed elmi con il leone a sorvegliarle entrambe. Arya era andata ad appostarsi sul tetto di una locanda dal quale si dominava la Porta del re. Li aveva visti frugare carri e portantine, costringere i cavalieri ad aprire le borse da sella, fare domande a chiunque cercasse di uscire a piedi.

Aveva anche pensato di attraversare anuoto il fiume dalle Rapide nere, ma tutti dicevano che era troppo largo e profondo, e che le sue correnti erano infide, pericolose. Nemmeno parlarne di pagare un traghettatore o un posto su una nave: non aveva denaro.

Il lord suo padre le aveva sempre insegnato a non rubare, ma stava diventando sempre più difficile ricordare perché. O lei riusciva ad andarsene in fretta, o sarebbe stata costretta a tentare con i mantelli dorati. Da quando era scappata, aveva imparato a prendere i piccioni con la spada di legno e per fortuna non aveva sofferto la fame, ma cominciava a temere che così tanta carne di piccione avrebbe finito con il farla stare male. Un paio di volatili, prima di scoprire il quartiere delle Pulci, era stata costretta a mangiarli crudi.

Nel quartiere c’erano moltissime bettole nelle quali il fuoco ardeva da anni sotto enormi calderoni di stufato. Lì potevi scambiare mezzo piccione con una porzione di pane del giorno prima e una ciotola di zuppa. Certe volte, se le penne le toglievi tu, ti permettevano addirittura di avere l’altro mezzo piccione ben rosolato e cotto a puntino. Arya avrebbe dato qualsiasi cosa per un coppa di latte e un dolcetto al limone, ma in fondo la zuppa non era così male. Di solito c’era dentro dell’orzo, e anche pezzi di carote, di cipolle, di rape. Qualche volta addirittura una mela, con sopra una bella patina di grasso. Arya cercava di non pensare alla carne, ma in un caso aveva trovato addirittura un pezzo di pesce.

C’era però un problema: le bettole non erano mai vuote e perfino quando mangiava sentiva su di sé occhi che la guardavano. Alcuni osservavano la sua cappa e i suoi stivali, e lei sapeva quello che c’era dietro quegli sguardi. Altri invece studiavano quello che c’era sotto la cappa; non aveva idea di che cosa quegli sguardi significassero, ma ne aveva una paura anche maggiore. Un paio di volte, qualcuno l’aveva inseguita per i vicoli, anche se nessuno era mai riuscito a metterle le mani addosso.

Il braccialetto d’argento che aveva sperato di vendere le era stato rubato la prima notte che aveva trascorso fuori dalla Fortezza Rossa, assieme al fagotto con i suoi abiti buoni, mentre dormiva in una casa semidistrutta dal fuoco lungo il vicolo dei Maiali. Tutto quello che le restava era la cappa nella quale si era avvolta, gli indumenti di cuoio, la spada di legno da addestramento… e Ago. Adesso dormiva tenendo Ago sotto di sé, altrimenti anche quella sarebbe sparita. La sua spada valeva più di tutto il resto messo assieme. Arya aveva cominciato a nasconderla andando in giro con il mantello drappeggiato sul braccio destro. Portava la spada di legno nella sinistra, bene in mostra, in modo da far paura ai ladri. Ma nelle bettole c’era gente che non si sarebbe fatta spaventare nemmeno se lei avesse impugnato un’ascia da guerra. Questo bastava a farle passare la voglia di piccione e pane secco. Fin troppo spesso, piuttosto che affrontare quegli sguardi, andava a dormire con i crampi per la fame.

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