Una volta fuori da Approdo del Re, si sarebbe nutrita di bacche, magari sarebbe anche riuscita a rubare qualche frutto. Durante il viaggio verso sud, Arya ricordava di aver visto parecchi frutteti ai lati della strada del Re. E poi, raggiunti i boschi, avrebbe potuto scavare radici, o addirittura dare la caccia ai conigli. Nella città, le sole cose alle quali dare la caccia erano topi, gatti e cani macilenti. Aveva sentito dire che le bettole pagavano bene a chi portava loro delle cucciolate, ma non le piaceva nemmeno pensarci.
Oltre la strada della Farina, più in basso, si sviluppava un labirinto di vicoli tortuosi e di incroci. Arya si destreggiò tra la folla, mettendo quanto più spazio possibile tra sé e i mantelli dorati. Aveva imparato a tenersi nel centro della strada. In certi casi era costretta a evitare cavalli e carri, ma in quel modo per lo meno vedeva arrivare gli armati di Slynt. A camminare vicino agli edifici, si correva il rischio di venire afferrati da individui in agguato negli androni. E c’erano addirittura vicoli nei quali si era costretti a camminare rasente i muri, tanto gli edifici si addossavano gli uni agli altri.
Una banda di bambini urlanti la superò di corsa, facendo girare un grande anello di legno. Arya li guardò piena di risentimento, ricordando quando anche lei giocava assieme a Bran, a Jon, al piccolo Eickon. Quanto doveva essere cresciuto, Rickon. E Bran? Era triste, Bran? Cosa non avrebbe dato per sentire Jon che la chiamava “sorellina”, per averlo lì ad arruffarle i capelli. Non che ne avessero bisogno. In una pozzanghera aveva visto la propria immagine riflessa: più arruffati di così non sarebbe stato possibile.
Aveva provato a parlare con i bambini e le bambine che incontrava per strada, cercando di farsi qualche amico che le desse un posto per dormire. Doveva aver parlato loro nel modo sbagliato. I più piccoli le rivolgevano sguardi rapidi, diffidenti, e scappavano se lei si avvicinava troppo. I più grandi le facevano domande alle quali non sapeva rispondere, la insultavano e cercavano di rubarle le sue poche cose. Solamente il giorno prima, una ragazza scalza grossa il doppio di lei l’aveva gettata a terra e aveva cercato di strapparle gli stivali, ma Arya l’aveva colpita all’orecchio con la spada di legno, facendola scappare piangente e sanguinante.
Un gabbiano veleggiava ad ali spiegate sopra di lei quando cominciò a scendere la collina, diretta al quartiere delle Pulci. Guardò l’uccello attentamente, ma era troppo in alto perché potesse raggiungerlo con la spada. Le fece venire in mente il mare. Forse era il mare la via per andarsene. La vecchia Nan raccontava ogni sorta di storie di ragazzi che si nascondevano nelle stive dei vascelli commerciali e partivano alla volta di mirabolanti avventure. Forse anche lei avrebbe potuto farlo. Decise di raggiungere il porto sul fiume. Era sulla strada della Porta del fango, comunque, e quel giorno non l’aveva ancora controllata.
Regnava una strana quiete sui moli. Arya individuò altri due mantelli dorati che camminavano fianco a fianco nel mercato del pesce, ma non la degnarono di un’occhiata. Metà dei banchi del mercato era vuota, e le parve anche che di navi attraccate ce ne fossero molte meno del solito. Sul fiume delle Rapide nere, tre vascelli da guerra della flotta reale incrociavano in formazione, le prue dipinte d’oro fendevano le acque, i remi si alzavano e si abbassavano ritmicamente. Arya rimase per un po’ a osservarli avanzare nella corrente, poi proseguì lungo il fiume.
Vide altri armati sul terzo molo, con mantelli di semplice lana grigia bordati di satin bianco, e il cuore le sobbalzò nel petto. I colori di Grande Inverno le fecero salire le lacrime agli occhi. Dietro di loro, un affusolato scafo commerciale ondeggiava pigro sugli ormeggi. Arya non riuscì a leggere il nome dipinto a prua. Era scritto nel linguaggio delle Città Libere, quello di Myr forse, o di Braavos, o addirittura in valyriano colto. Afferrò per la manica un marinaio che passava di lì. «Ti prego, qual è il nome di quella nave» gli chiese.
«La Strega dei venti , di Myr.»
«È ancora qui…» s’ingarbugliò Arya. Il marinaio le diede un’occhiata perplessa, scrollò le spalle e continuò per la sua strada. Arya corse verso il molo. La Strega dei venti era il vascello che suo padre aveva noleggiato per riportare lei e tutti gli altri a casa… e stava ancora aspettando! Aveva pensato che fosse salpato da secoli.
Due armati stavano giocando a dadi, il terzo passeggiava avanti e indietro, la mano sull’elsa della spada. Non volendo farsi vedere che piangeva come una fontana, Arya si fermò un momento a sfregarsi gli occhi. Gli occhi gli occhi gli occhi… come mai…
«Vedi con i tuoi occhi» le diceva Syrio.
Arya guardò e vide. Li conosceva tutti, gli uomini di suo padre. Quei tre con i mantelli grigi le erano completamente estranei. «Ehi, tu!» Quello con la spada si fermò e la fissò. «Che ci fai qui, ragazzino?» Gli altri due interruppero la partita e la fissarono a loro volta.
Non poteva voltarsi e scappare. Le sarebbero stati addosso in un attimo. Si avvicinò ancora di più. Cercavano una ragazza, ma l’avevano scambiata per un maschio. E lei questo sarebbe stata. «Di’ un po’.» Mostrò loro il piccione. «Lo vuoi comprare il mio piccione?»
«Ma levati dai piedi» intimò quello con la spada.
Arya si levò dai piedi. Non era necessario che fingesse di avere paura. Dietro di lei, la partita a dadi riprese.
In qualche modo, tornò al quartiere delle Pulci. Aveva il fiato grosso per la lunga corsa quando si ritrovò nelle stradine strette, tortuose, che si aggrovigliavano prive di selciato tra le colline. C’era sempre tanfo, nel quartiere delle Pulci. Un lezzo di porcili, di stalle, di tinture, il tutto mescolato con gli effluvi acidi del vino scadente e dei bordelli da quattro soldi. Ottenebrata, Arya si aggirò nel labirinto di vicoli. Fu solo quando le arrivò alle narici l’odore penetrante di un calderone che si rese conto di non avere più il piccione. Forse le era caduto dalla cintura mentre correva, o forse qualcuno gliel’aveva rubato senza che lei neppure se n’accorgesse. Le tornò voglia di mettersi a piangere. Adesso sarebbe stata costretta a risalire fino alla strada della Farina e a farne fuori un altro.
Chissà dove nella città, una campana si mise a suonare.
Arya alzò lo sguardo, chiedendosi cosa significassero quei rintocchi.
Un uomo grasso si affacciò sulla porta di una bettola. «Che altro succede, adesso?»
«Di nuovo le campane» si lamentò una vecchia. «Che gli dei abbiano pietà.»
Una puttana dai capelli rossi, con indosso un corpetto di seta dipinta, aprì una finestra al secondo piano. «Non dirmi che ha tirato le cuoia anche il re ragazzino» gridò, sporgendosi sulla strada. Si mise a ridere. Un uomo nudo apparve dietro di lei, le circondò la vita con le braccia e le morse il collo, palpandole i seni grandi che gonfiavano la stoffa sottile.
«Stupida vacca» le gridò da sotto l’uomo grasso. «Il re non è morto. Questa è solo la campana dell’adunata. Una sola torre. Quando il re muore, le campane della città suonano tutte.»
«E falla finita di mordere.» La puttana respinse l’uomo nudo con una gomitata. «O ti suono le tue, campane. Se non è morto il re, allora chi è che è morto?»
«È l’adunata» ripeté l’uomo grasso.
Due ragazzini all’incirca dell’età di Arya la superarono di corsa, i loro piedi che sollevavano spruzzi da una pozzanghera. La vecchia gli gridò dietro insulti ma loro nemmeno rallentarono. Anche altra gente stava muovendosi, adesso. Tutti si dirigevano verso la cima della collina per scoprire che cos’era quel nuovo trambusto. Arya si mise a inseguire il più lento dei due ragazzi. «Dove vai?» gli gridò nel raggiungerlo. «Che succede?»
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