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George Martin: Il regno dei lupi

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George Martin Il regno dei lupi
  • Название:
    Il regno dei lupi
  • Автор:
  • Издательство:
    Mondadori
  • Жанр:
  • Год:
    2001
  • Город:
    Milano
  • Язык:
    Итальянский
  • ISBN:
    88-04-49654-1
  • Рейтинг книги:
    3 / 5
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Il regno dei lupi: краткое содержание, описание и аннотация

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Nel terzo capitolo della saga delle “Cronache del ghiaccio e del fuoco” una rossa cometa apparsa nel cielo dei Sette Regni sembra annunciare tremende sciagure. La lunga estate dell'abbondanza sta per finire, mentre quattro pretendenti, in aperta guerra gli uni contro gli altri, si contendono il Trono di Spade.

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Melisandre di Asshai, maga, evocatrice di ombre, sacerdotessa di R’hlllor, il Signore della luce, Cuore del fuoco, dio della Fiamma e dell’Ombra. Melisandre di Asshai, alla cui follia non poteva essere permesso di dilagare al di fuori della Roccia del Drago.

In contrasto con la luminosità del giorno, le stanze del maestro apparivano ora tetre e oscure. Con mani tremanti, il vecchio accese una candela e la portò con sé nel laboratorio sotto la scala per l’uccelliera, dove i suoi unguenti, le pozioni e i medicamenti si allineavano ordinatamente sugli scaffali. Su quello più in basso, dietro tozzi contenitori di creta pieni di erbe, trovò una fiala di vetro color indaco, non più grossa del suo dito mignolo. Quando la scosse, qualcosa rimbalzò dentro di essa. Cressen soffiò via un velo di polvere e portò il piccolo oggetto di vetro fino al tavolo. Il maestro si lasciò cadere sulla sedia, tolse il tappo e rovesciò il contenuto della fiala. Una dozzina di cristalli, delle dimensioni di piccoli semi, si dispersero sulla pergamena che stava studiando e, alla luce della candela, scintillarono come gioielli. Erano di un viola talmente intenso da dare al maestro l’impressione di non aver mai visto il vero colore viola fino a quel momento.

La catena appesa al collo gli parve di colpo molto pesante. Con la punta del mignolo, toccò leggermente uno dei cristalli. “Una cosa tanto piccola, eppure dotata del potere di vita e di morte.” Proveniva da una pianta che cresceva solamente nelle isole del mare di Giada, all’altro capo del mondo. Le foglie dovevano essere lasciate invecchiare, quindi andavano immerse in un’essenza composta da cedri spremuti, acqua zuccherata e alcune rare spezie delle Isole dell’Estate. Una volta filtrato, l’estratto andava mescolato con la cenere e lasciato cristallizzare. Era un processo lento e complesso, i cui componenti erano costosi e assai difficili da trovare. Gli alchimisti di Lys ne conoscevano la formula, e anche gli Uomini senza faccia, la confraternita di micidiali assassini di Braavos, la conoscevano… e pure i maestri del suo ordine, per quanto non fosse argomento che veniva discusso al di fuori delle mura della Cittadella. Tutto il mondo era a conoscenza del fatto che un maestro poteva forgiare l’anello d’argento della propria catena solo dopo aver appreso le arti di guarigione. Quello che il mondo preferiva dimenticare era che colui che sapeva come guarire, sapeva anche come uccidere.

Cressen non ricordava più il nome che gli Asshai davano alla foglia, né in che modo gli avvelenatori di Lys chiamavano il cristallo. Nella Cittadella, era semplicemente chiamato “lo strangolatore”. Disciolto nel vino, il cristallo viola avrebbe fatto contrarre i muscoli della gola della vittima designata, serrandogli la trachea più saldamente di una mano chiusa a pugno. Si diceva che il volto della vittima diventava dello stesso colore viola del piccolo seme di cristallo che gli dava la morte, ma la stessa cosa accadeva anche a chi soffocava a causa di un pezzo di cibo.

E quella stessa sera, lord Stannis avrebbe banchettato con i suoi lord alfieri, con sua moglie… e con la donna rossa, Melisandre di Asshai.

“Devo riposare” disse fra sé maestro Cressen. “Al calar della notte, devo essere in possesso di tutte le mie forze. Le mani non mi devono tremare, né il coraggio abbandonarmi. È una cosa spaventosa quella che sto per fare, eppure deve essere fatta. Se gli dei esistono, sono certo che mi perdoneranno.” Aveva dormito così male, negli ultimi tempi. Un breve sonno lo avrebbe messo in condizione di affrontare la prova che lo aspettava. Lentamente, raggiunse il suo letto. Pur con gli occhi chiusi, continuava a vedere la luce della cometa, rossa, lucente, pulsante come un faro nell’oscurità dei suoi sogni. “Forse è la mia cometa” fu il suo ultimo, annebbiato pensiero prima di scivolare nell’oblio. “Un presagio di sangue, sì… l’annuncio di un assassinio…”

Si risvegliò nel cuore delle tenebre. La stanza attorno a lui era completamente buia e ogni articolazione del corpo gli doleva. Cressen si alzò, la testa che martellava. Brancolò alla ricerca del bastone, mettendosi in piedi in equilibrio incerto. “È così tardi. Non mi hanno chiamato.” Veniva sempre convocato per i banchetti e prendeva posto vicino al sale, alla destra di lord Stannis. Il volto del suo signore fluttuò davanti a lui, non l’uomo che era diventato ma il ragazzo che era stato, in disparte tra le fredde ombre mentre il fratello maggiore brillava nella calda luce del sole. “Qualsiasi impresa Stannis compiva, Robert l’aveva già compiuta prima di lui, e meglio di lui. Povero ragazzo…” Ma ora Cressen doveva affrettarsi. Proprio in nome di quel povero figlio.

Trovò i cristalli viola là dove li aveva lasciati e li raccolse dalla pergamena. Maestro Cressen, non possedeva anelli cavi, del tipo che si diceva usassero gli assassini di Lys. Possedeva però l’abito del suo ordine culturale, dotato di ampie maniche, all’interno delle quali era cucita una miriade di tasche grandi e piccole. Fu in una di esse che celò i semi dello strangolatore. Poi spalancò la porta e chiamò ad alta voce.

«Pylos, dove sei?» Nessuna risposta. Cressen chiamò a voce più alta. «Pylos! Ho bisogno del tuo aiuto.»

E, di nuovo, ci fu solo silenzio. Strano. La cella del giovane maestro si trovava soltanto mezzo giro di scale più in basso, a portata di voce.

Alla fine, Cressen fu costretto a richiamare l’attenzione dei servi. «Fate presto» intimò loro. «Ho dormito troppo. Staranno già facendo festa… e bevendo… Avreste dovuto venire a svegliarmi…»

Ma che cos’era accaduto a maestro Pylos? Proprio non riusciva a capirlo. Fu costretto ad attraversare di nuovo la lunga galleria. Il vento notturno, saturo dell’odore del mare, sussurrava filtrando dalle alte finestre ad arco. Torce balenavano sulle mura della Roccia del Drago e nell’accampamento militare lungo la costa c’erano centinaia di bivacchi accesi, quasi che il cielo stellato fosse caduto sulla terra. Più in alto, rossa e maligna, pulsava la cometa.

“Sono troppo vecchio e troppo saggio per aver paura di un simile prodigio” si disse maestro Cressen.

Le porte della sala grande erano collocate nelle fauci di un drago di pietra.

Aveva detto ai servi di lasciarlo là. Meglio che entrasse da solo, non doveva apparire debole. Appoggiandosi pesantemente al bastone, Cressen salì gli ultimi scalini e superò l’architrave irto di zanne ricurve. Due guardie armate aprirono per lui gli spessi battenti di legno rosso, dando libero sfogo a un’improvvisa esplosione di suoni e di luci. Cressen avanzò dentro le fauci del drago.

Al di sopra del clangore dei piatti e dei coltelli, oltre il brusio delle conversazioni, udì il canto di Macchia e il tintinnare dei suoi campanelli: «… Danza, mio signore, danza, mio signore…». Era la stessa, maledetta nenia di quella mattina. «Le ombre vengono per restare, mio signore, resta anche tu, mio signore, resta anche tu.»

I tavoli al livello più basso erano affollati di cavalieri, arcieri e capitani mercenari che si avventavano su grandi forme di pane da immergere nel loro stufato di pesce. Ma non c’erano, nella sala, gli scoppi di risate né le urla sbracate che turbavano la dignità delle feste di altri nobili. Lord Stannis non permetteva eccessi del genere.

Cressen si diresse verso la piattaforma sulla quale erano accomodati i lord e il loro re, costretto a compiere un ampio giro per cercare di evitare Macchia. Continuando a danzare, le campanelle che tintinnavano senza sosta, il giullare lo non vide né l’udì avvicinarsi. Così, saltellando da un piede all’altro, Macchia finì dritto addosso a Cressen, facendogli perdere il bastone di mano. Caddero ammucchiati uno sull’altro, in mezzo a tutti i festanti, in un groviglio di gambe e braccia. Un’incontenibile ondata di risate si sollevò tutto attorno a loro. Ed erano senza dubbio uno spettacolo comico.

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