J.K. Rowling - Harry Potter e l'Ordine della Fenice

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Harry Potter e l'Ordine della Fenice: краткое содержание, описание и аннотация

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Il quarto volume delle avventure di Harry Potter ci ha lasciato con il fiato sospeso: Lord Voldemort è tornato. Che cosa succederà ora che l’Oscuro Signore è di nuovo in pieno possesso dei suoi terrificanti poteri? Quanta morte e distruzione seminerà nel tentativo di riprendere il dominio dei mondo? Sono le stesse domande che si pone Harry Potter, disperatamente segregato — come tutte le estati — nella casa dei suoi zii Babbani, lontano dal mondo magico che gli appartiene. Ma qualcosa è cambiato anche in lui. Ormai quindicenne, lo ritroviamo divorato dalla frustrazione, dalla rabbia e dall’ansia di ribellione tipiche della sua età. In uno dei libri più attesi nella storia della letteratura, J.K. Bowling non cessa di stupirci. Tessendo un’altra stupefacente trama, riesce questa volta a dar voce alle inquietudini dell’adolescenza, ad arricchire il suo già mirabolante universo di nuove creature e nuovi indimenticabili personaggi, e anche a metterci in guardia contro la stupidità del potere e di chi lo usa per combattere il talento, il coraggio, la fantasia e la diversità.

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«Penso che sia una buona idea toglierci da qui, sapete» disse nervosa Hermione. «Nel caso…»

«Sì, giusto» annuì Ron. Si diressero tutti e tre verso le porte della Sala Grande, ma Harry aveva appena intravisto il soffitto (quel giorno era percorso da nuvole bianche sospinte dal vento) quando sentì qualcuno battergli sulla spalla. Si voltò e si trovò quasi naso contro naso con Gazza, il custode. Si affrettò a indietreggiare. Gazza era meglio guardarlo a distanza.

«La Preside vuole vederti, Potter» sogghignò.

«Non sono stato io» disse stupidamente Harry, pensando a Fred e George. Una risata silenziosa fece tremolare le guance di Gazza.

«Coda di paglia, eh?» borbottò maligno. «Seguimi».

Harry lanciò un’occhiata a Ron e Hermione, che avevano entrambi l’aria allarmata. Scrollò le spalle e seguì Gazza risalendo la marea di studenti affamati per tornare nella Sala d’Ingresso.

Gazza sembrava di buonumore, e mentre salivano la scalinata di marmo canticchiava stridulo fra sé. «Le cose sono cambiate, qui, Potter» disse quando raggiunsero il primo pianerottolo.

«Me ne sono accorto» replicò freddo Harry.

«Sissignore… glielo dicevo da anni, a Silente, che era troppo tenero con voialtri». Sbottò in una risatina maligna. «Voi sudicioni non avreste mai tirato una sola Pallottola Puzzola se aveste saputo che potevo cavarvi la pelle a frustate! E nessuno avrebbe osato lanciare Frisbee Zannuti nei corridoi se avessi potuto appendervi per le caviglie nel mio ufficio! Ma quando entrerà in vigore il Decreto Didattico Numero Ventinove, allora avrò mano libera… e lei ha chiesto al Ministro di firmare un ordine per l’espulsione di Pix… oh, sì! Le cose saranno molto diverse, con lei al timone…»

A quanto pareva, la Umbridge si era conquistata il pieno appoggio di Gazza, pensò Harry, e il peggio era che probabilmente lui si sarebbe dimostrato un alleato fondamentale: la sua conoscenza dei passaggi segreti e dei nascondigli della scuola era probabilmente seconda solo a quella dei gemelli Weasley.

«Eccoci arrivati» annunciò Gazza sogghignando. Batté tre colpi sulla porta della professoressa Umbridge e la aprì. «Potter per lei, signora».

L’ufficio della Umbridge, così familiare a Harry dopo tante punizioni, era sempre il solito, tranne che sulla scrivania era comparsa una grossa targa di legno con la parola Preside scritta in lettere dorate. Con una fitta al cuore, Harry vide la sua Firebolt e le Tornado di Fred e George incatenate con lucchetti a un robusto piolo di ferro infilato nella parete alle spalle della Umbridge.

Era seduta alla scrivania e scribacchiava rapida su una delle sue pergamene rosa, ma non appena entrarono alzò la testa e rivolse loro un sorriso smagliante.

«Grazie, Argus» disse dolcemente.

«Di niente, signora». Gazza s’inchinò per quanto glielo permettevano i suoi reumatismi e uscì camminando a ritroso.

«Si sieda» ordinò la Umbridge brusca, indicando una sedia. Harry obbedì. Lei riprese a scrivere, lasciandolo a fissare i disgustosi gattini che sgambettavano sui piatti appesi alla parete, e a chiedersi quali nuovi orrori avesse in serbo.

«Bene» disse finalmente, posando la piuma e fissandolo con l’aria soddisfatta di un rospo che si accinge a ingoiare una mosca particolarmente succulenta. «Che cosa le andrebbe di bere?»

«Prego?» chiese Harry, sicuro di non aver sentito bene.

«Bere, signor Potter». Se possibile, il suo sorriso sembrava ancora più soddisfatto. «Tè? Caffè? Succo di zucca?»

Agitò la bacchetta a ogni nome, e subito un bicchiere o una tazza apparvero sulla scrivania.

«Niente, grazie» rispose Harry.

«Desidero che lei beva qualcosa insieme a me» insisté la Umbridge con una dolcezza minacciosa. «Scelga qualcosa».

«E va bene… tè, allora» disse Harry, alzando le spalle.

La Umbridge si alzò con una complicata manovra per dargli la schiena mentre aggiungeva il latte al tè. Poi fece il giro della scrivania, sempre con la stessa espressione di sinistra dolcezza.

«Ecco qui». Gli consegnò la tazza. «Lo beva prima che si raffreddi, mi raccomando. E ora, signor Potter… Mi sembrava il caso di fare una chiacchierata dopo tutto lo scompiglio di ieri sera».

Harry non aprì bocca. La Umbridge tornò a sedersi dietro la scrivania e aspettò. Dopo lunghi secondi silenziosi, gli chiese vivacemente: «Allora, non beve il suo tè?»

Di scatto Harry accostò la tazza alle labbra, e altrettanto di scatto la riabbassò. Uno degli orridi gattini dietro la Umbridge aveva grandi, tondi occhi blu identici all’occhio magico di Malocchio Moody, e a Harry era appena venuto in mente che cosa avrebbe detto Malocchio se fosse venuto a sapere che aveva bevuto una cosa offerta da un nemico.

«Che cosa c’è?» chiese la Umbridge, che non lo aveva perso di vista un istante. «Vuole lo zucchero?»

«No, grazie».

Harry avvicinò di nuovo la tazza alla bocca e, guardandosi bene dallo schiudere le labbra, finse di sorseggiare. Il sorriso della Umbridge si allargò.

«Bene» mormorò. «Molto bene. Allora…» Si protese verso di lui. «Dov’è Albus Silente

«Non lo so» rispose pronto Harry.

«Beva, beva» disse lei, sempre sorridendo. «Allora, Potter, smettiamola con questi giochetti. Io so che lei sa dove si trova. Voi due ci siete dentro fino al collo, dall’inizio. Consideri la sua posizione…»

«Non so dov’è» ripeté Harry.

Ancora una volta, finse di bere.

«Molto bene» disse la Umbridge, decisamente contrariata. «In tal caso sarà così gentile da dirmi dov’è Sirius Black».

Harry sentì una morsa chiudergli lo stomaco e la mano che reggeva la tazza tremò, facendola tintinnare contro il piattino. La riavvicinò alle labbra — sempre sigillate — e la inclinò tanto che un po’ di tè caldo gli gocciolò sulla veste.

«Non lo so» rispose, un po’ troppo in fretta.

«Signor Potter» disse la Umbridge, «le ricordo che in ottobre ho quasi catturato il criminale Black nel camino di Grifondoro. So perfettamente che era lì per incontrarsi con lei, e se ne avessi avuto le prove nessuno di voi due sarebbe in libertà al momento, glielo assicuro. Allora, signor Potter… dov’è Sirius Black?»

«Non lo so» ripeté Harry. «Non ne ho la minima idea».

Rimasero a fissarsi così a lungo che Harry si sentì lacrimare gli occhi. Finalmente la Umbridge si alzò.

«Benissimo, Potter. Per questa volta accetterò la sua parola, ma lei è avvertito: ho il pieno appoggio del Ministero. Tutti i canali di comunicazione della scuola sono sotto controllo. Un Controllore Metropolvere tiene d’occhio ogni camino di Hogwarts… tranne il mio, naturalmente. La Squadra d’Inquisizione fermerà tutti i gufi per aprire e leggere la posta in entrata e in uscita dal castello. E il signor Gazza sorveglierà i passaggi segreti. Se trovo uno straccio di prova…»

BUM!

Perfino il pavimento tremò. Sbigottita, la Umbridge scivolò di lato e fu costretta ad aggrapparsi alla scrivania per non cadere.

«Che cosa…?»

Stava guardando la porta e Harry ne approfittò per svuotare la tazza ancora piena nel vaso di fiori secchi più vicino. Dal piano di sotto arrivava un frastuono di urla e passi di corsa.

«Torni a pranzo, Potter!» gridò la Umbridge. Levò la bacchetta e si precipitò fuori dall’ufficio. Dopo averle concesso pochi secondi di vantaggio, Harry si affrettò a seguirla per vedere l’origine di quel pandemonio.

Non gli fu difficile scoprirlo. Un piano più sotto regnava il caos. Qualcuno (e lui aveva un’idea molto precisa di chi fosse) aveva dato fuoco a quella che sembrava un’intera cassa di fuochi d’artificio magici.

Draghi formati da scintille verdi e oro sfrecciavano nei corridoi emettendo vampe roventi e botti assordanti; girandole rosa shocking grandi quasi due metri sibilavano nell’aria, simili a pericolosi dischi volanti; razzi dalle lunghe code di luccicanti stelle argentate rimbalzavano sui muri; bengala tracciavano parolacce a mezz’aria; petardi esplodevano dappertutto come mine; e invece di consumarsi e svanire — o fermarsi e spegnersi — tutte quelle meraviglie pirotecniche sembravano acquistare energia e velocità.

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