Alla signorina sembrò che fossero passati solo pochi secondi.
HO TERMINATO, SIGNORINA FLITWORTH.
Lei lo guardò stringendo gli occhi. Poi, lentamente e deliberatamente, si asciugò le mani con uno straccio, uscì nell’aia e si diresse al porcile.
Nancy si era tuffata fino agli occhi nel trogolo.
La signorina Flitworth si chiese cosa rispondere. Alla fine decise per «Molto bene. Molto bene. Lavori… in fretta, non c’è che dire».
SIGNORINA FLITWORTH, PERCHÉ IL GALLO NON CANTA COME DOVREBBE?
«Oh, Cyril? Non ha memoria. Ridicolo, no? Magari si ricordasse come si fa».
Bill Porta trovò un pezzo di gesso nella vecchia mascalcia della fattoria, individuò un pezzo di asse tra i rottami, e scrisse qualcosa con molta attenzione. Poi affisse la tavola davanti al pollaio e ci mise Cyril davanti.
LEGGERAI QUESTO, disse.
Cyril guardò con occhi miopi il ‘chicchirichì’ scritto in pesanti caratteri gotici. Da qualche parte nella sua piccola, folle mente da pollo si formò la distinta e gelida consapevolezza che era meglio che imparasse a leggere molto, molto in fretta.
Bill Porta tornò a sedersi tra la paglia e pensò alla giornata. Era sembrata piuttosto piena. Aveva falciato l’erba, nutrito gli animali e riparato una finestra. Aveva trovato dei vecchi indumenti da lavoro appesi nella stalla, che per un Bill Porta sembravano molto più adatti di una veste fatta di oscurità, e così li aveva indossati. La signorina Flitworth gli aveva anche dato un cappello di paglia con la tesa larga.
E poi si era avventurato per il mezzo miglio di strada che portava in città. Città era una parola grossa. A quanto pareva i residenti si guadagnavano da vivere rubandosi l’un l’altro il bucato.
C’era una piazza, una cosa ridicola che in realtà era un incrocio un po’ largo, con una torre dell’orologio. E c’era una taverna. Era entrato.
Dopo il primo momento in cui la mente degli altri si sintonizzava sulla sua presenza, era stato accolto con cauta benevolenza; le notizie viaggiano ancora più in fretta quando sono poche bocche a spargerle.
«Dev’essere quello nuovo che lavora dalla Flitworth» disse il barista. «Porta, mi sembra».
CHIAMATEMI BILL.
«Ah? Una volta era una bella fattoria. Non avrei mai pensato che la vecchia sarebbe rimasta».
«Ah» convennero un paio di uomini accanto al camino.
AH.
«Nuovo di queste parti?» chiese il barista.
L’improvviso silenzio degli altri clienti fu come un buco nero.
NON ESATTAMENTE.
«Sei già stato qui?»
DI PASSAGGIO.
«Dicono che la vecchia Flitworth sia matta» disse una delle figure sedute sulle panche lungo le pareti annerite dal fumo.
«Ma acuta come una lancia, però» disse un altro bevitore curvo.
«Acuta, certo. Ma sempre una matta».
«E dicono che abbia delle casse piene di tesori in quel vecchio salotto».
«Coi soldi è tirata, quello è sicuro».
«Vedi. Acuta e ricca. Ma sempre matta».
«I ricchi non possono essere matti. Eccentrici, casomai».
Il silenzio tornò a incombere. Bill Porta cercò disperatamente qualcosa da dire. Non era mai stato molto bravo a fare conversazione. Non aveva mai avuto molte occasioni.
Che si diceva di solito in casi come questo? Ah. Sì.
OFFRO DA BERE A TUTTI, annunciò.
Più tardi gli insegnarono un gioco che consisteva in un tavolo con dei buchi e delle reti lungo i bordi, e delle palle intagliate da mani esperte nel legno; a quanto pareva le palle dovevano rimbalzare l’una contro l’altra e finire nelle buche. Si chiamava Biliardo. Giocava bene, lui. In effetti, giocava alla perfezione. All’inizio non aveva capito come evitarlo. Ma dopo aver sentito gli altri trattenere il respiro dallo sbalordimento, aveva iniziato a commettere errori con diligente precisione; quando poi gli insegnarono le freccette, era diventato veramente bravo a fare errori. Più faceva errori, più piaceva agli altri. Così lanciava le piccole frecce piumate con fredda perizia, non facendole mai conficcare a meno di trenta centimetri dai bersagli che gli indicavano. Ne mandò perfino una a rimbalzare contro un chiodo, facendola poi finire nella birra di un tale, cosa che fece ridere talmente forte uno degli uomini più anziani che dovettero portarlo fuori a prendere un po’ d’aria.
Lo chiamavano Buon Vecchio Bill.
Nessuno lo aveva mai chiamato così prima.
Che strana serata.
C’era stato anche un brutto momento, però. Aveva sentito una vocetta che diceva «Quello lì è uno schelitro» e aveva visto una bambina piccola in camicia da notte che lo guardava da dietro il bar, senza paura ma con una sorta di affascinata repulsione.
Il padrone, che come Bill Porta ora sapeva, si chiamava Lifton, aveva riso nervosamente e si era scusato.
«Che fantasia» aveva detto. «Le cose che si inventano i bambini, eh? Torna a letto, Sal. E chiedi scusa al signor Porta».
«È uno schelitro con i vestiti» aveva detto la bimba. «Perché la birra non cola tutta fuori?»
Gli era quasi preso il panico. I suoi poteri intrinseci stavano svanendo, quindi. Normalmente le persone non riuscivano a vederlo: lui occupava un punto cieco nei loro sensi, che ognuno riempiva con qualcosa che avrebbe incontrato più volentieri. Ma l’incapacità degli adulti di vederlo non era una garanzia contro questo genere di dichiarazione insistita, e aveva sentito la perplessità degli altri. Poi, appena in tempo, era arrivata la madre dal retro e aveva portato via la bambina. Aveva sentito lamentele soffocate per le scale, del tipo «… È uno schelitro con tutte le ossa…»
E per tutto il tempo il vecchio orologio sul camino aveva ticchettato, tagliando via secondi dalla sua vita. Non molto tempo prima gli erano sembrati così tanti…
Qualcuno bussò piano alla porta della stalla, sotto il fienile. Sentì la porta che si apriva.
«Sei presentabile, Bill Porta?» chiese la voce della signorina Flitworth nel buio.
Bill Porta analizzò la frase cercandole un senso nel contesto.
SÌ?, azzardò.
«Ti ho portato un bicchiere di latte caldo».
SÌ?
«Dai, sbrigati o si raffredda».
Bill Porta scese cautamente la scala a pioli. La signorina Flitworth aveva in mano una lanterna, e uno scialle attorno alle spalle.
«Ci ho messo la cannella. Il mio Ralph ce la voleva sempre». Sospirò.
Bill Porta era consapevole delle sfumature allo stesso modo in cui un astronauta è cosciente del tempo meteorologico sotto di lui; c’è, è visibile, pronto per essere studiato e totalmente separato dall’esperienza diretta.
GRAZIE, disse.
La signorina Flitworth si guardò intorno.
«Ti sei sistemato bene qui» disse allegramente.
SÌ.
Lei si strinse nello scialle.
«Io torno a casa, allora» disse. «Puoi riportare la tazza domani mattina».
E si incamminò in fretta nella notte.
Bill Porta tornò sul soppalco con il latte. Lo posò su una trave bassa e rimase a guardarlo raffreddarsi, fino a molto dopo che la candela si fu spenta.
Dopo un po’ si accorse di un sibilo persistente. Prese la clessidra d’oro e la mise all’altro capo del fienile, sotto un mucchio di paglia.
Non fece la minima differenza.
Windle Poons si avvicinò per guardare i numeri civici (un centinaio di Pini Contatori erano morti solo per quella strada) poi si rese conto che non ne aveva bisogno. Guardava da vicino solo per abitudine. Migliorò la sua vista.
Ci volle un po’ per trovare il 668, perché in effetti si trovava al primo piano, sopra una sartoria. Si entrava da un vicolo, in fondo al quale c’era una porta di legno. Sulla vernice scrostata qualcuno aveva affisso un cartello che diceva, in caratteri ottimistici:
’ENTRATE! ENTRATE! CLUB NUOVO INIZIO. LA MORTE È SOLO IL PRIMO PASSO!’
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