«Va bene, ma adesso portali qui» intervenne sua madre.
Obbediente, Cally fece il suo ingresso nella stanza, brandendo sega e coltello come trofei di guerra. Come l’avanguardia di un grande esercito all’attacco. Sì, un grande esercito, come quello degli israeliti condotto da Giosuè alla conquista della Terra Promessa. Era così che reggevano le armi, alte sopra la testa, mentre marciavano attorno alle mura di Gerico. E continuarono a marciare per sette giorni. E il settimo giorno si fermarono e diedero fiato alle trombe e lanciarono un immenso grido, e le mura vennero giù , e loro tennero le spade e i coltelli alti sopra la testa e si avventarono sulla città, facendo a pezzi uomini donne fanciulli, tutti nemici di Dio, così che la Terra Promessa fosse purificata dalla loro immonda presenza, pronta ad accogliere il popolo del Signore. Al termine della giornata erano tutti coperti di sangue, e Giosuè era ritto in mezzo a loro, grande profeta di Dio, con una spada insanguinata sopra la testa, e urlava. Che cosa urlava?
Non riesco a ricordare che cosa urlasse. Se solo riuscissi a ricordare che cosa urlava, capirei perché me ne sto qui in mezzo alla strada fiancheggiata dagli alberi carichi di neve.
Il reverendo Thrower si guardò le mani, poi guardò gli alberi. Senza rendersene conto, s’era allontanato dalla casa di un buon mezzo miglio. Non aveva indosso nemmeno il suo pesante mantello.
Poi la verità gli balzò agli occhi. Non era affatto riuscito a ingannare il diavolo. In un batter d’occhio Satana lo aveva trasportato fin lì per impedirgli di uccidere la Bestia. Aveva mancato la sua unica opportunità di raggiungere la grandezza. Si appoggiò a un tronco freddo e nero e pianse amaramente.
Cally entrò nella stanza reggendo coltello e sega alti sopra la testa. Measure si stava preparando a stringere la gamba con tutte le sue forze, quando a un tratto il vecchio Thrower si alzò e uscì dalla stanza con la stessa premura di uno a cui scappi improvvisamente un bisogno.
«Reverendo Thrower!» esclamò la mamma. «Dove andate?»
Ma Measure aveva capito. «Lascialo andare, mamma» disse.
Udirono la porta di casa aprirsi e i passi pesanti del pastore sulle assi della veranda.
«Cally, va’ a chiudere la porta d’ingresso» disse Measure.
Per una volta, Cally obbedì senza piantar grane. La mamma guardò Measure, poi papà, poi di nuovo Measure. «Non capisco proprio perché se ne sia andato in questo modo» mormorò.
Measure le rivolse un mezzo sorrisetto, quindi guardò papà. « Tu lo sai, vero papà?»
«Forse» disse Miller.
E allora Measure lo spiegò anche a sua madre. «Quelle lame e quel pastore non possono stare in questa stanza con Al Junior».
«E perché mai? Era lui che doveva operarlo!»
«Be’, adesso puoi star sicura che non lo farà» disse Measure.
La sega e il coltello riposavano sulla coperta.
«Papà» disse Measure.
«No».
«Mamma».
«Non posso» disse Faith.
«Be’» concluse Measure, «allora penso proprio di essermi appena laureato chirurgo». Guardò Alvin.
Il viso del ragazzo era soffuso d’un pallore mortale, ancor più impressionante del rossore della febbre. Ma riuscì ad abbozzare una specie di sorriso, e sussurrò: «Penso anch’io».
«Mamma, quel lembo di pelle dovrai reggerlo tu».
Faith annuì.
Measure prese il coltello e ne posò la lama sulla linea di base del rettangolo.
«Measure» sussurrò Al Junior.
«Sì, Alvin?» chiese Measure.
«Per sopportare il dolore e restare immobile, ho bisogno che tu ti metta a fischiare».
«E come faccio a restare intonato se intanto debbo tagliare?»
«Non importa se stoni».
Measure lo guardò negli occhi e capì di non avere altra scelta se non fare ciò che gli era stato chiesto. In fin dei conti la gamba era di Alvin, e se voleva un chirurgo fischiettante erano affari suoi. Trasse un respiro profondo e cominciò a fischiettare, ma senza seguire una melodia precisa, solo una serie di note. Posò di nuovo il coltello sulla linea nera e cominciò a tagliare. All’inizio con delicatezza, perché aveva sentito Al inspirare bruscamente.
«Continua a fischiare» sussurrò Alvin. «Fino all’osso».
Measure riprese a fischiettare, e stavolta tagliò in fretta e a fondo. Fino all’osso al centro della linea. Una profonda incisione sui due lati. Poi inserì il coltello sotto gli angoli per sollevare la pelle e il muscolo. All’inizio il sangue uscì copiosamente, ma ben presto l’emorragia si arrestò. Measure immaginò che per fermare il sangue in quel modo Alvin avesse fatto qualcosa dentro di sé.
«Faith» disse papà.
La mamma allungò il braccio, prese il lembo sanguinante di pelle e lo sollevò. Al protese una mano tremante e disegnò un triangolo sull’osso striato di rosso della sua stessa gamba. Measure depose il coltello e prese la sega. Nel tagliare, la lama produceva un rumore sgradevole e stridente. Ma Measure continuò a fischiettare e a segare, a segare e a fischiettare. E ben presto si ritrovò in mano un cuneo d’osso. Apparentemente non aveva niente di speciale.
«Sei sicuro che fosse il punto giusto?» chiese.
Alvin annuì lentamente.
«L’ho tolto tutto?»
Al sedette immobile per qualche istante, poi annuì di nuovo.
«Vuoi che la mamma ti ricucia la ferita?» chiese ancora Measure.
Alvin non rispose.
«È svenuto» disse papà.
Il sangue ricominciò a scorrere, ma appena appena, filtrando lentamente nella ferita. La mamma aveva ago e filo infilati nel puntaspilli che portava appeso al collo. Un attimo dopo aveva rimesso a posto il lembo di pelle e lo stava ricucendo con punti fitti e precisi.
«Tu continua a fischiare, Measure» disse.
Così Measure continuò a fischiettare mentre lei continuava a cucire, finché la ferita non fu chiusa e bendata. Alvin, nuovamente disteso sul letto, dormiva come un neonato. Tutti e tre si alzarono per andare via. Papà posò delicatamente una mano sulla fronte del ragazzo.
«Mi sembra che non abbia più la febbre» disse.
Mentre uscivano pian piano dalla stanza, la melodia di Measure si fece decisamente allegra.
Non appena Elly lo vide, si mostrò affettuosa come non mai, spazzolandogli la neve dagli abiti e aiutandolo a togliersi il mantello, senza nemmeno accennare una domanda a proposito di ciò che era accaduto.
Ma quella sua gentilezza non faceva nessuna differenza. Prima o poi uno dei fratelli le avrebbe raccontato com’era andata, e Armor avrebbe perso la faccia di fronte a sua moglie. Ben presto la storia sarebbe corsa di bocca in bocca nell’intera vallata del Wobbish. Corazza-di-Dio Weaver, fornitore dei territori occidentali, futuro governatore, sbattuto fuori di casa nella neve dal vecchio suocero. Tutti gli avrebbero riso dietro le spalle. Ne avrebbero dette di cotte e di crude. Mai in faccia, si capisce, poiché in pratica non c’era nessuno tra il lago Canada e il fiume Noisy che non gli dovesse del denaro o non avesse bisogno delle sue mappe per comprovare qualche diritto di proprietà. Ma il giorno in cui nel territorio del Wobbish si sarebbero svolte delle elezioni, avrebbero raccontato quella storia intorno a ogni seggio. L’uomo del quale sì ride può ispirare simpatia, ma non rispetto, e nessuno avrebbe votato per lui.
Armor si trovava ad affrontare il crollo di tutti i suoi progetti, e la moglie aveva un po’ troppo dei Miller perché lui riuscisse a sopportarlo. Certo, per quelle regioni di frontiera era carina, ma in quel momento non gliene importava. Le dolci notti e gli affettuosi risvegli non avevano più importanza. Né l’aveva che lei avesse sempre lavorato al suo fianco. In quel momento gl’importava soltanto della vergogna e della rabbia che provava.
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