Thrower cadde in ginocchio davanti all’altare e pregò. O Padre, per Te sarei disposto a morire, ma non chiedermi di uccidere. Allontana questo calice dalle mie labbra, sono troppo debole, sono indegno, non caricare questo fardello sulle mie spalle.
Le sue lacrime caddero sull’altare. Nell’udire uno sfrigolio, Thrower fece un balzo indietro, spaventato. Le lacrime correvano rapide sulla superficie dell’altare come gocce d’acqua su una padella arroventata, fino a consumarsi e scomparire.
Il Signore mi ha respinto, pensò. Ho giurato di obbedirgli in tutto ciò che Egli volesse ordinarmi, e adesso che mi chiede qualcosa di difficile, che mi comanda d’essere forte come gli antichi profeti, scopro d’essere un vaso spezzato nelle Sue mani, incapace di contenere il destino ch’Egli voleva riversare in me.
La porta della chiesa si aprì. Una folata d’aria gelida corse sul pavimento inviando un brivido nelle ossa del pastore. Thrower alzò lo sguardo, temendo che si trattasse d’un angelo venuto a punirlo.
Ma non era un angelo. Era semplicemente Corazza-di-Dio Weaver.
«Non intendevo interrompere le vostre preghiere» disse Armor.
«Entrate» lo invitò Thrower. «Chiudete la porta. Che cosa posso fare per voi?»
«Non è per me» disse Armor.
«Venite. Sedetevi. Di che cosa si tratta?»
Thrower si augurò in cuor suo che la venuta di Armor proprio in quel momento potesse essere un segno di Dio. Un membro della congregazione venuto a chiedere il suo aiuto, subito dopo la sua preghiera… sicuramente il Signore voleva fargli capire che dopotutto lo accoglieva presso di Sé.
«È per mio suocero», disse Armor. «O meglio, per suo figlio, Alvin Junior».
Thrower si sentì attraversare da un brivido di terrore che lo gelò fino al midollo. «Lo conosco. Che gli è successo?»
«Saprete certamente che si è fatto male a una gamba».
«Ne ho sentito parlare».
«Non siete per caso andato a fargli visita prima che guarisse?»
«Sono portato a credere che in quella casa non sarei affatto il benvenuto».
«Be’, lasciate che ve lo dica, era proprio messo male. Un intero lembo di pelle strappato via. Ossa rotte. Ma due giorni dopo era già guarito. Non si vedeva neanche più la cicatrice. Tre giorni dopo camminava » .
«Non doveva essere messo male come avevate creduto».
«Vi sto dicendo che la gamba era rotta e la ferita era brutta. In famiglia erano ormai convinti che il ragazzo stesse per morire. Mi avevano già chiesto di procurargli i chiodi per la bara. E, da quanto ci pativano, non ero del tutto sicuro che oltre al ragazzo non avremmo dovuto seppellire anche il padre e la madre».
«Allora la guarigione non può essere ancora completa come dite».
«Be’, in effetti proprio completa non è, ed è questo il motivo per cui sono venuto da voi. So che non credete a queste cose, ma vi assicuro che per far guarire quella gamba debbono aver combinato qualche stregoneria. Secondo Elly è stato il ragazzo stesso. Per qualche giorno ci ha addirittura camminato, senza stecche né nulla. Ma non ha mai smesso di fargli male, e adesso lui dice che nell’osso c’è un punto malato. Gli è anche venuta la febbre».
«Tutto questo può trovare una spiegazione assolutamente naturale» insisté Thrower.
«Be’, sarà anche come dite, ma per come la vedo io il ragazzo, con le sue stregonerie, ha fatto entrare il diavolo dentro di sé, e adesso il diavolo se lo sta mangiando vivo. E visto che siete un ministro consacrato al servizio di Dio, ho pensato che forse potreste scacciare quel diavolo in nome del Signore Gesù».
Tutte quelle superstizioni e quel parlare di stregoneria erano soltanto sciocchezze, beninteso, ma quando Armor aveva parlato della possibilità che il diavolo fosse entrato nel ragazzo la cosa parve a Thrower del tutto credibile e in accordo con quanto aveva saputo dal Messo. Forse il Signore non voleva affatto che egli uccidesse il ragazzo, ma che lo esorcizzasse in modo da purificarlo dal male. Era un’opportunità per redimersi dal cedimento di qualche minuto prima.
«Ci andrò» disse afferrando il pesante mantello e gettandoselo sulle spalle.
«Sarà meglio che vi avverta: nessuno di loro mi ha chiesto d’invitarvi in quella casa».
«Sono preparato ad affrontare l’ira degli infedeli» disse Thrower. «È della vittima delle macchinazioni diaboliche che voglio curarmi, non della sua sciocca e superstiziosa famiglia».
Alvin era disteso a letto, e ardeva di febbre. Adesso ch’era giorno, tenevano le imposte chiuse in modo che la luce non gli ferisse gli occhi. Di notte invece era lui stesso a chiedere che le aprissero in modo da far entrare l’aria fredda e poter respirare più liberamente. Nei pochi giorni in cui era stato in grado di camminare, aveva visto i campi coperti di neve. Adesso cercava d’immaginarsi disteso sotto quella gelida coltre per trovare sollievo dal fuoco che gli bruciava dentro.
Il fatto era che non riusciva a vedere abbastanza in piccolo dentro se stesso. Ciò che aveva fatto con l’osso, con le fibre muscolari e gli strati di. pelle, era stato molto più difficile che cercare le incrinature nella pietra, su alla cava. Eppure alla fine era riuscito a farsi strada a tentoni nel labirinto del suo corpo, a trovare le ferite peggiori, ad aiutarle a chiudersi. La maggior parte di ciò che gli succedeva dentro, però, era troppo piccolo e rapido perché lui riuscisse a comprenderlo. Poteva vedere il risultato, ma non riusciva a scorgere i diversi elementi in gioco, a capirne il funzionamento.
Ecco il perché di quel punto malato nell’osso. Si trattava semplicemente d’un pezzo d’osso che si stava indebolendo, decomponendo. Alvin riusciva a percepire la differenza tra il punto malato e la parte sana e robusta, riusciva a percepire i confini del male. Ma non riusciva a vedere quel che stava succedendo. Non riusciva a impedirlo. Stava morendo.
Non era solo nella stanza, lo sapeva. C’era sempre qualcuno seduto al suo fianco. Apriva gli occhi e vedeva la mamma, o papà, o una delle ragazze. Qualche volta addirittura uno dei suoi fratelli, anche se ciò significava che per venire aveva lasciato moglie e fattoria. Per Alvin era un conforto, ma allo stesso tempo un peso. Non poteva fare a meno di pensare che avrebbe fatto meglio a morire prima possibile, in modo che tutti potessero tornare alla loro vita abituale.
Quel pomeriggio, seduto accanto a lui c’era Measure. Quando era entrato, Alvin l’aveva salutato, ma poi non c’era stato molto di cui parlare. Come va? Sto morendo, grazie, e tu? Un po’ difficile continuare a chiacchierare. Measure gli aveva raccontato che lui e i gemelli avevano cercato di tagliare una mola per il mulino. Nonostante avessero scelto una pietra più morbida di quella su cui aveva lavorato Alvin, non erano riusciti a cavare un ragno dal buco. «Alla fine l’abbiamo piantata lì» aveva detto Measure. «Per avere una mola bisognerà aspettare che ti sia rimesso abbastanza in salute da arrivare fin lassù. Sei l’unico che ce la può procurare».
Alvin non aveva risposto, e da quel momento nessuno dei due aveva più detto una parola. Alvin se ne stava lì disteso a sudare e a sentire il marciume nell’osso che lentamente cresceva e si diffondeva. Suo fratello sedeva accanto al letto, e gli stringeva delicatamente una mano.
Measure cominciò a fischiettare.
Quel suono fece sobbalzare Alvin. Era stato così profondamente immerso dentro se stesso che quella musica gli era parsa venire da una distanza immensa, e ci aveva messo un po’ a capire quale ne fosse l’origine.
«Measure» disse, ma il suono della sua voce non era più forte di un sussurro.
La melodia s’interruppe. «Scusa» disse Measure. «Ti dà noia?»
«No».
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