Fatto sta che quell’uomo era per l’appunto Mike Fink. E Mike Fink se ne vergognava profondamente.
Anche con i Rossi di Prophetstown era la stessa cosa. Che razza di gara era quella, svegliarli con scariche di mitraglia che attraversavano fischiando le pareti delle capanne, incendiandole, tagliando di netto i corpi di donne, vecchi e bambini?
Non è il mio genere di combattimento, pensò Mike Fink.
Nel cielo era comparso il primo chiarore dell’alba. Prophetstown era ancora una distesa di ombre, ma il momento era arrivato. Alvin Miller puntò il suo moschetto verso le case e sparò.
Pochi secondi dopo i cannoni gli risposero col loro ruggito. Qualche secondo ancora, e in più punti balzarono verso l’alto le prime fiamme.
I cannoni spararono di nuovo. Eppure nessuno uscì urlando dalle capanne. Nemmeno da quelle che si erano incendiate.
Possibile che nessun altro se ne fosse accorto? Possibile che non si rendessero conto che a Prophetstown non era rimasta anima viva? E se i Rossi se n’erano andati, questo significava che erano stati preavvertiti dell’attacco. E se erano stati preavvertiti, forse in quel momento erano nascosti da qualche parte, in agguato. O forse se n’erano andati tutti, o magari…
Il talismano portafortuna tatuato sulla natica di Mike Fink era così caldo da scottare. E Mike sapeva che cosa questo significava. Era il momento di andarsene. Se fosse rimasto, gli sarebbe successo qualcosa di veramente brutto.
Così scivolò lungo la fila di soldati, o comunque li si volesse chiamare, considerando che l’addestramento di quei contadini non era durato più di un paio di giorni. Nessuno fece attenzione a Mike Fink. Erano troppo occupati a guardar bruciare le capanne. Alcuni di loro si erano finalmente accorti che la città dei Rossi sembrava deserta, e ne parlavano in tono di preoccupazione. Mike si guardò bene dall’aprir bocca, e continuò ad avanzare silenziosamente lungo la fila, in direzione del fiume.
I cannoni si trovavano tutti sul fianco della collina; adesso Mike li udiva tuonare in lontananza. Uscito dal folto degli alberi, fece per attraversare il tratto di terreno scoperto che lo separava dalla riva. E lì si fermò, incredulo. L’alba era ancora una sottile striscia grigia in lontananza, ma ciò che vedeva non lasciava adito a equivoci. Migliaia e migliaia di Rossi, in piedi sul prato spalla contro spalla. Alcuni piangevano sommessamente… qualche pallottola vagante o qualche frammento di shrapnel era certamente arrivato fin laggiù, dato che due dei quattro cannoni si trovavano dalla parte opposta della città e sparavano proprio in quella direzione. Ma i Rossi non tentavano nemmeno di difendersi. Non era un’imboscata. Erano tutti disarmati. Quella gente era lì per morire.
Sulla riva a monte e a valle c’erano, tirate in secco, una dozzina di canoe. Mike Fink ne spinse una in acqua e con un salto vi ruzzolò dentro. A valle, ecco dove sarebbe andato, seguendo il corso del Wobbish fino all’Hio. Quella di oggi non era una battaglia, era un massacro, e tutto ciò che Mike Fink poteva dire era che non si trattava del suo genere di combattimento. Anche per lui, come per quasi tutti, esisteva qualcosa di così brutto che nessuno avrebbe mai potuto costringerlo a farlo.
Nel buio della cantina, Measure non riusciva a capire se Alvin si trovava veramente davanti a lui. Udiva però la sua voce, sommessa ma insistente, che fluttuava sulla cresta del dolore. «Sto cercando di aiutarti, Measure, ma ho bisogno che anche tu mi dia una mano.»
Measure non rispose. In quel momento per lui parlare non era esattamente la cosa più facile del mondo.
«Ti ho aggiustato il collo, e qualche costola, e gli organi interni» disse Alvin. «E le ossa del braccio sinistro erano quasi diritte, per cui adesso sono a posto, le senti?»
È vero che il braccio sinistro di Measure non gli faceva più male. Provò a muoverlo. Quel gesto gli inviò fitte lancinanti in tutto il corpo, ma il braccio aveva recuperato un po’ di forza, e adesso si muoveva.
«Le costole» disse Alvin. «Sbucano dalla pelle. Devi spingerle dentro, rimetterle a posto.»
Measure provò a spingerne una, e quasi svenne dal dolore. «Non ci riesco.»
«Devi riuscirci.»
«Fai in modo che non senta così male.»
«Measure, non saprei proprio come fare. O meglio, potrei farlo, ma allora non riusciresti più a muoverti. Devi sopportare. Ogni costola che tu rimetterai a posto, io potrò aggiustarla, e allora non ti farà più male, ma prima devi raddrizzarla, e devi farlo tu.»
«Perché non lo fai tu, invece?»
«Non posso.»
«Allunga la mano e fallo. Alvin, hai dieci anni ma sei robusto, puoi farcela.»
«Non posso.»
«Una volta ti ho segato l’osso della gamba, per salvarti la vita, e l’ho fatto per te.»
«Measure, non posso farlo perché non sono qui. »
La cosa parve a Measure del tutto insensata. Capì allora che stava sognando. Be’, se stava sognando, perché non faceva un sogno in cui stava un po’ meno male?
«Spingi dentro quell’osso, Measure.»
Alvin non voleva proprio saperne di andarsene. Così Measure spinse, nonostante il dolore. Ma Alvin non aveva parlato a vanvera. Poco dopo, il punto corrispondente all’osso raddrizzato non gli faceva più male.
Quanto tempo ci volle! Measure era talmente malridotto che gli sembrava che quella sofferenza non dovesse mai finire. Ma negli intervalli, ogni volta che aveva risistemato un osso e Alvin lo saldava, Measure raccontò al fratello quello che gli era successo, e Alvin raccontò a Measure quello che sapeva lui , e ben presto Measure capì che da ciò che stava accadendo dipendeva molto di più che la pura e semplice salvezza di un giovane chiuso in una cantina.
Finalmente, finalmente fu finita. Measure a malapena riusciva a crederci. Aveva sentito tanto male per tante ore di seguito, che non sentire più alcun dolore gli sembrava una cosa inconcepibile.
In quel momento udì il boato dei cannoni che cominciavano a sparare.
«Non senti, Alvin?» chiese Alvin non sentiva niente.
«Hanno cominciato a sparare. I cannoni.»
«Allora corri, Measure, più in fretta che puoi.»
«Sono prigioniero in questa cantina, Alvin. E la porta è sbarrata.»
Per tutta risposta, Alvin pronunciò un paio di parole che a rigore non avrebbe nemmeno dovuto conoscere.
«Alvin, in fondo alla cantina avevo cominciato a scavare una galleria. Visto come te la cavi con la pietra, non potresti per caso ammorbidire il terriccio in modo che io possa scavare più in fretta?»
Così fu. Measure rotolò in fondo alla buca, chiuse gli occhi e cominciò a raspare il terriccio sopra la sua testa. Il giorno prima scavando si era quasi ridotto le dita all’osso; ora invece il terriccio si sfaldava, scivolandogli addosso; quando lui si allungò verso l’alto, la terra smossa gli scivolò sotto le spalle, e lì ritornò compatta, così che Measure non doveva nemmeno pensare a portarla fuori della galleria, perché il fondo si alzava via via che lui scavava. Cominciò a scalciare; i suoi movimenti fecero sfaldare la terra, e tutto il suo corpo venne spinto verso l’alto.
Sto nuotando nella terra, ecco che cosa sto facendo, pensò, e gli venne da ridere, era così facile e così strano.
La sua risata si spense all’aria aperta. Era fuori, proprio dietro il tetto della cantina. Il cielo era ormai chiaro; nel giro di qualche minuto sarebbe spuntato il sole. Il rombo dei cannoni era cessato. Questo voleva forse dire che era tutto finito, che era ormai troppo tardi? Forse stavano semplicemente facendo raffreddare i pezzi d’artiglieria, o li stavano spostando da qualche altra parte. Oppure i Rossi erano in qualche modo riusciti a catturarli…
Quest’ultima sarebbe forse stata una buona notizia? A torto o a ragione, suo padre e i suoi fratelli si trovavano dalla parte di quei cannoni, e se i Rossi avessero vinto la battaglia, qualcuno di loro sarebbe potuto restare sul campo. Una cosa era sapere che i Rossi avevano ragione, e i Bianchi torto; ben diverso era augurarsi la sconfitta dei propri consanguinei, la sconfitta e forse la morte. Doveva fermare quella battaglia. Measure si mise a correre, come non aveva mai corso in vita sua. La voce di Alvin era scomparsa, ma Measure non aveva certo bisogno di incoraggiamento. Quasi volò sulla strada che portava al fiume.
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