«E allora a che pro radunare un esercito?»
Napoleone sorrise, sorseggiando il suo vino. «Ho avuto occasione di parlare con alcuni mercanti Irrakwa.»
«Gli Irrakwa non sono che urina di cane tignoso» disse Ta-Kumsaw. «Erano già animali selvaggi e crudeli prima che arrivassero i Bianchi. Ora sono peggio.»
«Strano. Gli inglesi sembrano considerarli anime gemelle. E La Fayette li adora. L’unica cosa che ci interessa in questo momento, tuttavia, è che fabbricano fucili in quantità e a basso costo. In fatto di efficienza possono lasciare un po’ a desiderare, ma usano tutti munizioni dello stesso tipo. Questo vuol dire che i proiettili da loro prodotti sono esattamente della stessa misura della canna, e questo assicura una maggiore precisione nel tiro. E li vendono a prezzo più basso degli altri.»
«E voi sareste disposti ad acquistarli per noi?»
«No. Sarete voi ad acquistarli.»
«Noi non abbiamo denaro.»
«Pellicce» suggerì Napoleone. «Pellicce di castoro e di visone. Pelli di daino e di bisonte.»
Ta-Kumsaw scosse la testa. «Non possiamo chiedere agli animali di morire solo perché abbiamo bisogno di fucili.»
«Peccato» fu il commento di Napoleone. «Mi dicono che voi Rossi avete un certo talento per la caccia.»
«I veri Rossi sì. Non gli Irrakwa. Ormai è troppo tempo che usano le macchine dell’uomo bianco. Per la terra sono morti, proprio come i Bianchi. Altrimenti quelle pellicce andrebbero a cercarsele da soli.»
«Vorrebbero anche qualcos’altro. Oltre alle pellicce» commentò Napoleone.
«Noi non abbiamo niente che gli Irrakwa possano volere.»
«Ferro» disse Napoleone.
«Noi non abbiamo ferro.»
«No. Ma gli Irrakwa sanno dove si trova. All’estremo nord del bacino del Mizzipy, e lungo il Mizota. Nei pressi della sponda settentrionale del lago High Water. Da voi vogliono soltanto una promessa: che non assalirete le imbarcazioni che trasporteranno il minerale ferroso verso l’Irrakwa, né i minatori che lo estrarranno dalle viscere della terra.»
«Pace per il futuro, in cambio di fucili adesso?»
«Sì» disse Napoleone.
«E non temono che quei fucili possano essere usati contro di loro !»
«Ti chiedono di promettere che non lo farai.»
Ta-Kumsaw soppesò la questione. «Agli Irrakwa puoi dire questo. Prometto che se ci riforniranno di fucili, nessuna di quelle armi verrà mai usata contro di loro. Tutti i miei uomini pronunceranno questo giuramento. In più, non assaliremo le loro imbarcazioni sull’acqua, né i minatori che estrarranno il minerale dalla terra.»
«E manterrai la promessa?» chiese Napoleone.
«Quello che ho detto lo manterrò» disse Ta-Kumsaw.
«Anche se li odi?»
«Se li odio è perché la terra stessa li odia. Quando l’uomo bianco se ne sarà andato, e la terra sarà di nuovo forte, e non più malata, i minatori saranno inghiottiti dai terremoti, le imbarcazioni saranno affondate dalle tempeste, e gli Irrakwa torneranno a essere veri uomini rossi, o periranno. Quando l’uomo bianco se ne sarà andato, la terra si mostrerà inflessibile con i suoi figli rimasti.»
L’incontro era terminato. Ta-Kumsaw si alzò e strinse la mano al generale. Alvin li sorprese entrambi facendo un passo avanti e tendendo a sua volta la mano.
Napoleone gliela strinse, divertito. «Di’ a questo ragazzo di evitare le compagnie pericolose» disse.
Ta-Kumsaw fece da interprete. Alvin lo guardò spalancando gli occhi. «Vuol riferirsi a te ?» chiese.
«Penso di sì» disse Ta-Kumsaw.
«Ma se è lui l’uomo più pericoloso del mondo!» esclamò Alvin.
Quando Ta-Kumsaw gli tradusse le parole del ragazzo, Napoleone rise. «E che pericolo posso rappresentare? Un piccolo uomo piantato in queste terre selvagge, mentre il centro del mondo è in Europa, e là si combattono grandi guerre a cui non posso partecipare!»
Ta-Kumsaw non ebbe bisogno di tradurre… il ragazzo aveva già interpretato l’espressione di Napoleone. «È pericoloso perché sa farsi amare dagli altri senza meritarselo.»
Ta-Kumsaw avvertì la verità nelle parole del ragazzo. Era questo l’effetto che Napoleone faceva ai Bianchi e, sì, era un uomo pericoloso, pericoloso e malvagio e oscuro. È questo l’uomo dal quale mi aspetto un aiuto? Che mi sono scelto per alleato? Sì, è lui, perché non ho altra scelta. Anche se Napoleone insisté, Ta-Kumsaw non volle tradurgli le parole del ragazzo. Fino a quel momento il generale francese non aveva tentato di gettare il suo incantesimo su Alvin. Se avesse saputo quello che il ragazzo aveva detto, avrebbe potuto provarci, e non era detto che non ci riuscisse. Ta-Kumsaw stava cominciando a capire che cosa si nascondeva in quel ragazzo. Forse era già diventato troppo forte perché Napoleone riuscisse a incantarlo. Ma era anche possibile che Alvin si trasformasse in uno schiavo adorante come de Maurepas. Meglio non metterlo alla prova. Meglio portarselo via.
Alvin volle assolutamente vedere la cattedrale. Vedendo entrare nel tempio un uomo e un ragazzo che indossavano solo un perizoma, un prete parve raccapricciato ma un secondo prete lo rimproverò e li accolse cortesemente. Ta-Kumsaw restava sempre divertito dalle statue dei santi. Tutte le volte che era possibile, esse raffiguravano il santo mentre veniva sottoposto alle più atroci torture. I Bianchi parlavano tanto della barbara usanza dei Rossi di torturare i prigionieri in modo da consentir loro di dimostrare il proprio coraggio. E alla fine, di fronte a che cosa si genuflettevano in preghiera? Alle statue di uomini che avevano dimostrato il proprio coraggio sotto la tortura. Impossibile trovare un senso nel comportamento dei Bianchi.
Nell’uscire a passo lento dalla città, Ta-Kumsaw e Alvin parlarono di queste cose. Ta-Kumsaw cercò inoltre di spiegare al ragazzo come facessero i Rossi a correre così lontano e così in fretta, e quanto fosse straordinario che un ragazzo bianco riuscisse a tenere il loro passo.
Alvin parve capire in che modo i Rossi partecipassero della vita della terra; o almeno ci provò. «Penso di averlo provato anch’io. Mentre correvo. È come se non fossi più in me. I miei pensieri vagano in ogni direzione. Un po’ come sognare. E mentre non ci sono, qualcos’altro dice al mio corpo che cosa fare. Lo nutre, lo usa, lo porta dove vuole. È la stessa cosa che provi anche tu?»
No, non era affatto ciò che provava Ta-Kumsaw. Quando la terra entrava in lui , si sentiva più vivo che mai; non assente dal proprio corpo, ma più presente che in qualsiasi altro momento. Ma questo al ragazzo non lo spiegò, preferendo rispondere con un’altra domanda. «Hai detto che per te è come sognare. Che cos’hai sognato la notte scorsa?»
«Ho sognato le visioni che ho avuto quando mi trovavo nella torre di cristallo con l’Uomo Luminoso… col Profeta.»
«L’Uomo Luminoso. Sì, ti ho sentito chiamarlo così… Tenska-Tawa me ne ha spiegato il perché.»
«Ho sognato di nuovo quelle cose. Ma stavolta era diverso. Certe cose riuscivo a distinguerle più chiaramente, mentre altre me l’ero dimenticate.»
«Hai per caso sognato qualcosa che non avevi già visto?»
«Sì, questo posto. Le statue nella cattedrale. E l’uomo che siamo andati a trovare, quel generale. E una cosa ancora più strana. Una collina, alta, quasi circolare… no, ottagonale. Questo me lo ricordo bene, il sogno era chiarissimo. Una collina con otto facce piane, che dalla cima si allargavano fino alla base. E all’interno c’era una città con un sacco di piccole stanze, come in un formicaio, ma abbastanza grandi perché ci potessero vivere delle persone. O comunque, esseri più grandi delle formiche. E io mi trovavo in cima alla collina e mi aggiravo in mezzo a strani alberi — le foglie non erano verdi, ma d’argento — e cercavo mio fratello. Mio fratello Measure.»
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