Orson Card - Il profeta dalla pelle rossa

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L’America tranquilla e pacifica in cui Alvin è nato non esiste più: l’uomo bianco ha strappato la terra all’uomo rosso, ha tagliato, distrutto, bruciato. Il giovane Alvin, inconsapevole incarnazione di un potere arcano, è il solo che può ridare speranza a quella terra martoriata. Con l’aiuto di Ta-Kumsaw, un Rosso forte e orgoglioso, e di suo fratello Lolla-Wossiky, Alvin troverà la forza di battersi per la salvezza della sua terra, di cui vedrà persino il lontano e incerto futuro.

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Ta-Kumsaw li condusse attraverso la foresta. Nella fila, il ragazzo bianco si trovava subito dietro di lui. Ta-Kumsaw impresse alla corsa un’andatura micidiale, due volte più veloce di quella che avevano tenuto nel condurre il ragazzo e suo fratello al lago Mizogan. Di lì a Fort Detroit c’erano duecento miglia, e Ta-Kumsaw era deciso a coprire l’intera distanza in un solo giorno. Nessun uomo bianco avrebbe potuto riuscirci… o, se era per quello, nessun cavallo. Un miglio ogni cinque minuti, sempre avanti, mentre il vento della corsa gli frustava il ciuffo di capelli alla sommità della testa. Tenere quel passo per più di mezz’ora avrebbe ucciso qualsiasi essere umano; ma l’uomo rosso poteva far ricorso alla forza della terra. Il terreno assecondava i suoi passi, aggiungendo forza alla forza. I cespugli si aprivano per lasciarlo passare; dove non c’era spazio, questo compariva; su fiumi e torrenti Ta-Kumsaw volava senza nemmeno toccare il fondo, affondando i piedi di quel tanto che bastava per far presa sull’acqua. Tanto bramava arrivare a Fort Detroit che la terra gli rispose dandogli nutrimento e forza. E non solo Ta-Kumsaw, ma ciascuno di coloro che lo seguivano, ogni Rosso capace di avvertire dentro di sé il contatto con la terra, s’imbevve della stessa forza che sosteneva il capo, posando il piede nello stesso punto, un passo dopo l’altro, come se fossero stati una sola grande anima che percorreva un unico angusto sentiero nella foresta.

Prima o poi il ragazzo bianco dovrò mettermelo in spalla, pensò Ta-Kumsaw. Ma i passi alle sue spalle — perché nel correre i Bianchi facevano rumore — gli tenevano dietro, seguendo un ritmo identico al suo.

Questo era evidentemente impossibile. Le gambe del ragazzo erano troppo corte, e per coprire la stessa distanza avrebbe dovuto fare un maggior numero di passi. Eppure a ogni falcata di Ta-Kumsaw ne corrispondeva una del ragazzo, con tale precisione che quel rumore di passi avrebbe potuto essere il suo.

Un minuto dopo l’altro, un miglio dopo l’altro, un’ora dopo l’altra, il ragazzo continuò a tenergli dietro.

Il sole tramontò dietro di lui, sopra la sua spalla destra. Spuntarono le stelle, ma non la luna. Sotto gli alberi il buio era completo. Eppure non rallentarono, per loro era facile trovare la strada nella foresta, perché non lo facevano con gli occhi o con la mente, ma era la terra stessa a guidarli nell’oscurità conducendoli dove non c’erano pericoli. Più volte, quella notte, Ta-Kumsaw notò che i passi del ragazzo non facevano più alcun rumore. In quelle occasioni si rivolgeva in shawnee all’uomo che correva dietro il ragazzo bianco chiedendogli che cosa questi facesse, e ogni volta l’uomo gli rispondeva: «Corre».

Si levò la luna, gettando chiazze di pallida luce tra gli alberi della foresta. Superarono un temporale: sotto i loro piedi il terreno si fece umido, poi bagnato; attraversarono di corsa brevi rovesci, poi una pioggia fitta e costante, poi altri rovesci; quindi il terreno si fece di nuovo asciutto. Ma non rallentarono mai il passo. Il cielo a oriente si fece grigio, poi rosa, poi azzurro. All’improvviso spuntò il sole. L’aria si era intiepidita e il sole era già tre palmi sopra l’orizzonte quando scorsero il fumo dei camini, poi la bandiera con i fiordalisi, afflosciata per mancanza di vento; infine, la croce della cattedrale. Solo allora rallentarono la corsa. Solo allora ruppero il perfetto unisono dei loro passi, allentarono mentalmente la presa sulla terra, e si fermarono a riposare su un prato così vicino alla città che si udivano le note dell’organo della cattedrale.

Ta-Kumsaw si fermò, e il ragazzo si fermò dietro di lui. Come aveva fatto Alvin, ragazzo bianco, a correre come un uomo rosso per tutta la notte? Ta-Kumsaw si inginocchiò davanti a lui. Anche se aveva gli occhi aperti, Alvin pareva non vedere nulla. «Alvin» disse Ta-Kumsaw, in inglese. Il ragazzo non rispose. «Alvin, stai dormendo?»

Alcuni guerrieri si radunarono intorno a loro. Dopo il lungo viaggio, erano silenziosi e stanchi. Non esausti, perché la terra stessa li aveva corroborati durante il tragitto. Il loro silenzio era piuttosto dovuto a un senso di meraviglia per essere stati così vicini alla terra; un viaggio del genere era considerato qualcosa di sacro, un dono della terra ai più nobili dei suoi figli. Numerosi erano i Rossi che avevano intrapreso un viaggio del genere ed erano stati respinti, costretti a fermarsi per dormire, riposare, mangiare; costretti a fermarsi dall’oscurità o dal cattivo tempo, perché il loro bisogno non era abbastanza grande, o il viaggio stesso andava contro ciò di cui la terra stessa aveva bisogno. Ta-Kumsaw non aveva mai subito un simile rifiuto; tutti i suoi compagni lo sapevano. Era questo uno dei motivi per cui Ta-Kumsaw non era tenuto in minor considerazione del fratello. Il Profeta sapeva compiere miracoli, ma nessuno poteva condividere le sue visioni; agli altri, egli poteva solo raccontarle. Quello che faceva Ta-Kumsaw, invece, i suoi guerrieri lo facevano insieme con lui, lo provavano insieme con lui.

In quel momento tuttavia, di fronte al ragazzo bianco, non erano meno sconcertati di Ta-Kumsaw. Era forse stato Ta-Kumsaw a prestare la sua forza al ragazzo? O era stata la terra, incredibilmente, a tendere la mano offrendo il proprio sostegno a un ragazzo bianco?

«È bianco come la sua pelle, o rosso nel cuore?» chiese uno dei guerrieri. Queste parole le pronunciò in shawnee, e non nella forma abbreviata di tutti i giorni, ma nella lingua sacra e lenta degli sciamani.

Con grande sorpresa di Ta-Kumsaw, Alvin rispose, senza più guardare nel vuoto ma portando lo sguardo su colui che aveva parlato. «Bianco» mormorò, in inglese.

«Allora capisce la nostra lingua?» chiese un secondo guerriero.

Alvin parve sconcertato da quella domanda. «Ta-Kumsaw» disse. Alzò lo sguardo per controllare l’altezza del sole. «È giorno. Mi sono addormentato?»

«Non ti eri addormentato» rispose Ta-Kumsaw in shawnee. Stavolta il ragazzo parve non capire affatto. «Non ti eri addormentato» ripeté Ta-Kumsaw in inglese.

«Ho la sensazione di essermi addormentato» fece Alvin. «Solo che mi ritrovo in piedi.»

«Non sei stanco? Non vuoi riposarti?»

«Stanco? Perché dovrei essere stanco?»

Ta-Kumsaw non si sentì in dovere di dargli spiegazioni. Se il ragazzo non sapeva che cosa aveva fatto, allora era un dono della terra. O forse in quel che il Profeta aveva detto di lui c’era del vero. Tenska-Tawa aveva detto che Ta-Kumsaw avrebbe dovuto insegnare ad Alvin a essere Rosso. Se era riuscito a tenere il passo di un gruppo di Shaw-Nee adulti in una corsa come quella senza mai cedere di un pollice, forse quel ragazzo, a differenza di qualsiasi altro Bianco, avrebbe potuto veramente imparare a sentire la terra.

Ta-Kumsaw si drizzò rivolgendosi ai suoi compagni. «Adesso andrò in città con quattro di voi.»

«E con il ragazzo» aggiunse un guerriero. Altri ripeterono le sue parole. Tutti quanti sapevano ciò che Tenska-Tawa aveva profetizzato a Ta-Kumsaw: che non sarebbe morto finché il ragazzo fosse stato al suo fianco. Anche se avesse avuto la tentazione di piantarlo in asso, loro non gliel’avrebbero permesso.

«E il ragazzo» acconsentì Ta-Kumsaw.

Detroit era un vero forte, niente di paragonabile alle patetiche palizzate di legno che si fregiavano dello stesso nome costruite dagli americani. I bastioni erano di pietra, come la cattedrale, con pezzi di artiglieria pesante puntati verso il fiume che collegava i laghi Huron e St. Clair con il lago Canada, e pezzi di artiglieria più leggera puntati verso l’entroterra, pronti a rintuzzare qualsiasi attacco nemico.

Ma a colpire Alvin e i suoi compagni non fu tanto il forte, quanto la città. Una decina di strade fiancheggiate da case di legno, botteghe e magazzini, e al centro una cattedrale così imponente da far scomparire la chiesa del reverendo Thrower. Preti dalle nere tonache volteggiavano per le vie come corvi in cerca di preda. I francesi, gente dal colorito scuro, non sembravano nutrire verso i Rossi l’ostilità spesso dimostrata dagli americani. Ta-Kumsaw capì che questo era dovuto al fatto che i francesi di Detroit non erano venuti in America con l’intenzione di stabilirvisi per sempre, e non consideravano i Rossi come rivali per il possesso della terra. I francesi in genere cercavano soltanto di trascorrere il tempo in attesa del momento di tornare in Europa, o quanto meno nelle regioni colonizzate dai Bianchi del Quebec e dell’Ontario, dall’altra parte del fiume; facevano naturalmente eccezione i cacciatori di pellicce, ma nemmeno per loro i Rossi erano nemici. I trapper generalmente nutrivano per i Rossi una sorta di timore reverenziale a causa della facilità con cui questi ultimi sembravano catturare la selvaggina. I Bianchi, che invece dovevano sputar sangue anche solo per capire dove collocare le trappole, pensavano ovviamente che sotto ci fosse qualche trucco, e che studiando a fondo il comportamento dei Rossi prima o poi anche loro avrebbero imparato il segreto. Ma questa naturalmente era una pia illusione. Com’era possibile che la terra potesse accettare gente che sterminava tutti i castori di un corso d’acqua solo per le loro pellicce, lasciando le carogne a marcire, e nemmeno un castoro per la riproduzione? Non c’era da meravigliarsi se l’orso ne faceva strage. Era la terra stessa a respingerli.

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