«Ho già lavorato la pietra prima d’ora» gli confidò Alvin, come per chiedere scusa.
«La selce non è pietra » ribatté Ta-Kumsaw. «I ciottoli dei fiumi, i macigni, quella è pietra. Questa è roccia vivente, roccia di fuoco, dura terra che la terra ci offre spontaneamente. Non abbiamo bisogno di strappargliela a forza, come fanno i Bianchi col ferro.» Alzò la quarta punta di freccia, quella che Alvin aveva staccato con le dita dal pezzo di selce. «L’acciaio non avrà mai un filo così tagliente.»
«Non credo di aver mai visto un filo così perfetto» disse Alvin.
«Nemmeno un segno o un’intaccatura» confermò Ta-Kumsaw. «Nel vedere questa punta, un uomo rosso direbbe che è stata la terra stessa a crearla così.»
«Ma tu sai com’è andata» replicò Al. «Sai che ho questo dono.»
«Un dono piega la terra» disse Ta-Kumsaw. «Come un tronco sommerso in un fiume fa ribollire la superficie dell’acqua. La terra fa lo stesso, quando un Bianco usa i suoi doni. Ma non quando lo fai tu.»
Alvin ci meditò su per qualche istante. «Vuoi dire che quando qualcuno fa uno scongiuro, getta un incantesimo o esercita la rabdomanzia, tu riesci a sentirlo?»
«Come il puzzo di un malato che si libera l’intestino» affermò Ta-Kumsaw. «Ma tu… quello che fai tu è pulito. Come se facesse parte della terra. Avevo creduto di poterti aiutare a diventare un Rosso. Invece è la terra stessa a concederti le punte di freccia. Come se volesse farti un dono.»
Di nuovo, Alvin ebbe la sensazione di dovergli chiedere scusa. In qualche modo Ta-Kumsaw sembrava irritato dalle cose che lui riusciva a fare. «Non è che l’abbia chiesto a nessuno» disse. «Mi è semplicemente capitato di essere il settimo figlio maschio di un settimo figlio maschio, e il tredicesimo figlio dei miei genitori.»
«Questi numeri — sette, tredici — a cui voi Bianchi date tanta importanza! Per la terra è come se non esistessero. I veri numeri sono quelli che la terra stessa ci dà. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei… questi sono i numeri che vediamo intorno a noi nella foresta. Dov’è il sette? Dov’è il tredici?»
«Forse è per questo che sono così potenti» azzardò Alvin. «Forse è proprio perché non sono naturali.»
«Se questo tuo dono è innaturale, perché mai la terra dovrebbe apprezzarlo?»
«Non lo so, Ta-Kumsaw. Ho solo dieci anni, e vado per gli undici.»
Ta-Kumsaw rise. «Dieci? Undici? Sono numeri molto deboli.»
Lì trascorsero la notte, ai confini della Terra delle Selci. Ta-Kumsaw narrò ad Alvin la storia di quel luogo, dove si trovavano le selci migliori della terra. Per quante selci uno si portasse via, dal terreno ne uscivano di nuove, e bastava chinarsi per raccoglierle. In passato, ogni tanto qualche tribù aveva cercato di impadronirsi di quel luogo inviando i suoi guerrieri a occuparlo con l’incarico di uccidere chiunque vi si recasse in cerca di selci. In quel modo la tribù sarebbe stata l’unica a poter disporre di punte di freccia. Ma la cosa non aveva mai funzionato. Non appena la tribù vittoriosa s’impossessava di quel luogo, le selci immediatamente scomparivano senza lasciare la minima traccia. I guerrieri perlustravano il terreno a palmo a palmo senza trovare nulla. Allora se ne andavano, e quando un’altra tribù capitava da quelle parti scopriva che le selci erano tornate, numerose come prima.
«Questo posto appartiene a tutti. Tutti i Rossi qui sono in pace. Niente sangue, niente guerre, niente litigi… o la tribù resta senza selci.»
«Quanto vorrei che il mondo intero fosse così» disse Alvin.
«Basta ascoltare mio fratello abbastanza a lungo, ragazzo bianco, e uno comincia a pensare che la meta sia già raggiunta. No, no, non spiegarmi nulla. Non difenderlo. Lui ha preso la sua strada, io la mia. E sono convinto che in fondo alla sua strada i morti — Rossi e Bianchi — saranno molto più numerosi che in fondo alla mia.»
Quella notte Alvin fece un sogno. Camminava lungo la base della Collina Ottagonale, finché non arrivava al punto dove un sentiero scosceso sembrava condurre alla sommità della collina. Lo prendeva, e alla fine arrivava in cima. Mosse dalla brezza, le foglie d’argento degli alberi tremolavano accecandolo con i loro riflessi. Avvicinatosi a un albero, Alvin scorgeva un nido di pettirosso. Ciascuno di quegli alberi ne ospitava uno.
Tutti tranne uno, molto diverso dagli altri. Era vecchio e contorto, e i suoi rami invece di dirigersi verso l’alto si allargavano. Come quelli di un albero da frutto. E le foglie non erano d’argento, ma d’oro, e il loro riflesso era meno forte, ma caldo e gradevole. Appesi ai rami Alvin scorgeva dei frutti bianchi e rotondi, e capiva che erano maturi. Ma quando allungava la mano per coglierne uno e mangiarlo, udiva risate e grida di scherno. Si voltava, e alle sue spalle vedeva tutti coloro che lo avevano conosciuto, e tutti quanti ridevano di lui. Tranne uno… Scambiastorie. In piedi accanto a lui gli diceva: «Mangia». Alvin stendeva la mano, coglieva uno di quei frutti, se lo portava alla bocca e gli dava un morso. La polpa era soda e succosa, e il sapore era dolce e amaro, salato e acido insieme, così forte da farlo rabbrividire da capo a piedi… ma squisito, un sapore che Alvin avrebbe voluto conservare dentro di sé per sempre.
Stava per dare un secondo morso, quando si accorgeva che il frutto era sparito, e sull’albero non ne restava più neanche uno. «Per ora un morso è tutto ciò di cui hai bisogno» diceva Scambiastorie. «Ricorda sempre questo sapore.»
«Non me ne dimenticherò» assicurava Alvin.
Gli altri continuavano a ridere, più forte che mai; ma Alvin non se ne dava per inteso. Aveva dato un morso a quel frutto, e ora pensava soltanto a condurre a quell’albero i suoi familiari, tutti coloro che aveva conosciuto in vita sua, persino gli estranei, e far loro assaggiare quei frutti. Se solo li avessero assaggiati, pensava Alvin, avrebbero capito.
«Che cosa capirebbero?» chiedeva Scambiastorie.
Al non riusciva a farselo tornare in mente. «Capirebbero e basta» diceva. «Capirebbero tutto. Tutto quello che bisogna capire.»
«Giusto» ribatteva Scambiastorie. «Al primo morso, si capisce. »
«E al secondo?»
«Al secondo morso, si vive in eterno» diceva Scambiastorie. «E questa non è cosa da augurare a nessuno, ragazzo mio. Brutta cosa, mettersi in testa di poter vivere in eterno.»
Al mattino, quando si svegliò, Alvin aveva ancora in bocca il sapore di quel frutto. Per convincersi che era stato solo un sogno dovette quasi farsi violenza. Ta-Kumsaw era già in piedi. Dopo avere acceso un focherello, aveva chiamato a sé due trote del fiume Licking, che ora sfrigolavano sulle braci con un bastoncino infilato nella bocca. Ta-Kumsaw ne porse una ad Alvin perché la reggesse sul fuoco.
Ma Alvin non aveva voglia di mangiare. Se l’avesse fatto, non avrebbe più sentito il sapore di quel frutto. Avrebbe cominciato a dimenticare, e invece voleva ricordare. Certo, sapeva bene che prima o poi avrebbe dovuto mangiare qualcosa… A forza di digiunare, si rischia di dimagrire un po’ troppo. Ma quel giorno, o almeno per il momento, non voleva mangiare.
Ciò nonostante, prese lo spiedo e guardò la trota sfrigolare. Ta-Kumsaw intanto parlava, spiegandogli che quando uno aveva bisogno di nutrirsi poteva chiamare i pesci e gli altri animali. Chiedendo loro di venire. Se la terra vuole che tu mangi, gli animali da te chiamati arrivano; o magari ne arrivano altri, non importa, comunque mangi ciò che la terra ti dona. Alvin pensò al pesce che stava cuocendo. Non lo sapeva, la terra, che quella mattina non avrebbe avuto voglia di mangiare? O gli aveva mandato quel pesce per fargli capire che avrebbe dovuto cibarsi?
Né l’una né l’altra cosa. Nel preciso istante in cui i pesci furono pronti, infatti, si udì il tipico rumore di passi pesanti e rami spezzati che preannunciava l’arrivo di un Bianco.
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