Margaret Weis - La guerra dei gemelli

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Scuotendosi di dosso a fatica la sensazione paralizzante che talvolta afferra qualcuno che si è svegliato all’improvviso da un sonno profondo, Caramon s’inginocchiò accanto a Crysania e, prendendola delicatamente con una mano, l’aiutò a rialzarsi. Crysania lo fissò sbattendo le palpebre senza riconoscerlo. Poi il suo sguardo si spostò immediatamente su Raistlin. Un sorriso le illuminò la faccia. Chiuse gli occhi e mormorò una preghiera di ringraziamento. Poi, portandosi una mano sul fianco, si afflosciò addosso a Caramon. Sulle sue bianche vesti era visibile del sangue fresco.

«Dovresti guarire te stessa,» disse Caramon, aiutandola a uscire dalla tenda, sorreggendo con le sue braccia robuste i suoi passi esitanti.

Crysania sollevò lo sguardo su di lui e, malgrado fosse indebolita, il suo volto era bello e calmo nel trionfo.

«Forse domani,» rispose con voce sommessa. «Questa notte la mia vittoria è ben più grande. Non vedi? Questa è la risposta alle mie preghiere.»

Contemplando quella bellezza pacifica e serena, Caramon sentì le lacrime salirgli agli occhi.

«Così, è questa la tua risposta?» chiese, burbero, lanciando un’occhiata in direzione dell’accampamento. I falò erano ridotti a mucchi dì cenere e di braci. Con la coda dell’occhio Caramon vide qualcuno che correva via, e seppe che ben presto si sarebbe diffusa la notizia che la strega era in qualche modo riuscita a restituire il morto alla vita.

Caramon sentì la bile salirgli in bocca. Poteva immaginare i discorsi, l’eccitazione, le domande, le congetture, le occhiate cupe e gli scuotimenti di teste, e la sua anima si ritrasse. Voleva soltanto andare a letto, dormire e dimenticarsi di tutto.

Ma Crysania stava parlando. «Questa è anche la tua risposta, Caramon,» disse con fervore. «Questo è il segno degli dei che abbiamo entrambi cercato.» Fermandosi, si girò per guardarlo in faccia con grande calore. «Sei ancora cieco come lo eri nella Torre? Non credi ancora? Abbiamo posto la faccenda nelle mani di Paladine e il dio ha parlato. Raistlin doveva vivere. Deve compiere questa sua grande impresa. Insieme, lui ed io, e anche tu, se ti unirai a noi, combatteremo il male e lo sconfiggeremo, così come stanotte abbiamo combattuto e sconfitto la morte!»

Caramon la fissò. Poi chinò la testa e infossò le spalle. Non voglio combattere il male, pensò stancamente. Voglio soltanto tornare a casa. Questo è chiedere troppo?

Sollevò una mano e cominciò a sfregarsi una tempia che gli pulsava. E poi si fermò, vedendo, alla luce dell’alba che andava lentamente aumentando d’intensità, i segni delle dita insanguinate di suo fratello ancora sul suo braccio. «Metterò una guardia all’interno della tua tenda,» disse con asprezza.

«Cerca di dormire un po’...»

Si allontanò.

«Caramon,» lo chiamò Crysania.

«Cosa?» Si fermò con un sospiro.

«Ti sentirai meglio domattina. In queste ore pregherò per te. Buona notte, amico mio. E ricordati di ringraziare Paladine per aver fatto la grazia di concedere la vita a tuo fratello.»

«Sì, sì... certamente,» bofonchiò Caramon. Si sentiva molto a disagio, con il mal di testa che andava peggiorando; sapeva che ben presto si sarebbe sentito molto peggio, per cui lasciò Crysania e fece ritorno, incespicando, alla propria tenda.

Qui, tutto solo, nell’oscurità, si sentì male, e vomitò in un angolo fino a crollare sul suo giaciglio sfinito.

Capitolo decimo.

Battendo leggermente sulla pietra dell’ospite, che si trovava fuori dell’abitazione di Duncan, Kharas aspettò nervosamente la risposta. Arrivò presto. La porta si aprì, e là c’era il suo re.

«Entra, e che tu sia il benvenuto, Kharas,» disse Duncan, allungando una mano e tirando a sé il nano.

Arrossendo per l’imbarazzo, Kharas entrò nella dimora del suo re. Sorridendogli gentilmente, per metterlo a suo agio, Duncan gli fece strada attraverso la casa, fino al suo studio privato.

Costruita molto in profondità, nel cuore del Regno della montagna, la dimora di Duncan era in realtà un complicato labirinto di stanze e di gallerie piene di quei mobili di legno, scuri, massicci e robusti che i nani ammiravano. Malgrado fosse più grande e spaziosa della maggiore parte delle case di Thorbardin, la dimora di Duncan era quasi esattamente simile a quella di ogni altro nano.

Sarebbe stato considerato il massimo del cattivo gusto se fosse stato altrimenti. Il semplice fatto che Duncan fosse il re, non gli dava il diritto di assumere atteggiamenti altezzosi. Così, malgrado avesse dei servitori, veniva di persona ad accogliere i visitatori alla porta e serviva gli ospiti con le proprie mani. Vedovo, viveva in quella casa insieme ai suoi due figli, che non erano sposati, essendo entrambi giovani (soltanto ottant’anni a testa, o giù di lì).

Era ovvio che lo studio nel quale Kharas entrò era la stanza preferita di Duncan. Scudi e asce da combattimento decoravano le pareti, insieme a un bell’assortimento di spade catturate agli hobgoblin, con le loro lame ricurve, un tridente di minotauro vinto da qualche lontano antenato e, naturalmente, martelli, ceselli e altri utensili per lavorare la pietra.

Duncan fece accomodare il suo ospite con la genuina ospitalità dei nani, offrendogli la miglior poltrona, versandogli la birra, e attizzando il fuoco. Kharas era stato lì altre volte, naturalmente, molte volte, in realtà. Ma adesso si sentiva inquieto e a disagio, come se fosse entrato nella casa di un estraneo. Forse ciò era dovuto al fatto che Duncan, malgrado trattasse l’amico con l’usuale cortesia, di tanto in tanto fissava il nano sbarbato con uno sguardo strano e penetrante.

Osservando quell’insolita espressione negli occhi di Duncan, Kharas trovò impossibile rilassarsi e rimase lì, sulla sedia, irrequieto, ripulendosi nervosamente la schiuma dalla bocca con il dorso della mano mentre aspettava che le formalità si concludessero.

E così fu assai presto. Versandosi un boccale di birra, Duncan lo svuotò d’un sol fiato. Poi, appoggiando il boccale sul tavolo accanto al suo braccio, si accarezzò la barba, fissando Kharas con un’espressione fosca e cupa.

«Kharas,» disse, «ci avevi detto che lo stregone era morto.» «Sì, thane,» replicò Kharas, sorpreso.

«Quello che io personalmente gli ho inferto era un colpo mortale. Nessuno avrebbe mai potuto sopravvivere...»

«Lui, sì,» ribatté Duncan, asciutto. Kharas si accigliò. «Mi stai accusando...»

Adesso toccò a Duncan arrossire. «No, amico mio! Ben lungi da me l’idea di farlo. Sono certo che, qualunque cosa possa essere successa, tu credevi in tutta sincerità di averlo ucciso.» Duncan emise un profondo sospiro. «Ma i nostri esploratori hanno riferito di averlo visto nel campo. In apparenza era ferito, per lo meno non era più in grado di cavalcare. Però, l’esercito ha proseguito per Zhaman, trasportando lo stregone su un carro.»

«Thane!» protestò Kharas, rosso in viso per la collera. «Ti giuro! Il suo sangue è scorso sopra le mie mani ! Ho strappato la mia spada dal suo corpo. Per Reorx!» Il nano rabbrividì. «Ho visto l’espressione della morte nei suoi occhi!»

«Non ne dubito, figliolo!» l’interruppe Duncan, con foga, protendendosi a battere la mano sulla spalla dell’eroe. «Non ho mai sentito che qualcuno sia sopravvissuto ad una ferita come quella che tu hai descritto, salvo che ai vecchi tempi, naturalmente, quando i chierici viaggiavano ancora per il paese.»

Come tutti gli altri veri chierici, anche i chierici nani erano scomparsi subito prima del Cataclisma.

Però, a differenza delle altre razze su Krynn, i nani non avevano mai abbandonato la loro credenza nell’antico dio, Reorx, il Forgiatore del Mondo. Malgrado i nani fossero rimasti sconvolti perché Reorx aveva causato il Cataclisma, la fede che avevano in lui era troppo radicata, e faceva parte in maniera troppo intrinseca della loro cultura, perché potessero semplicemente ripudiarla a causa di una piccola infrazione da parte del loro dio. Comunque, erano abbastanza incolleriti da non venerarlo più in maniera palese.

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