Robert Jordan - La grande caccia

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Per un attimo, scoraggiato, Rand si appoggiò con la spalla alla dura pietra della parete. Volevano domarlo: sarebbe stato tanto brutto, porre fine a quella faccenda? Mettervi fine davvero? Chiuse gli occhi, ma continuò a vedersi rannicchiato come un coniglio, senza un posto dove scappare, mentre le Aes Sedai, simili a corvi, stringevano il cerchio intorno a lui. Quasi sempre gli uomini domati morivano a breve distanza di tempo: perdevano la voglia di vivere. Rand ricordava troppo bene le parole di Thom Merrilin, per affrontare una situazione del genere. Si scosse bruscamente e percorse in fretta il corridoio. Non aveva senso stare fermo in un posto, col rischio di farsi trovare. Ma prima o poi l’avrebbero trovato comunque. Come una pecora nel recinto. Toccò l’elsa: no, non una pecora, né per le Aes Sedai né per altri. Si sentì un po’ sciocco, ma ben deciso.

Ormai la gente tornava ai propri lavori. Confusione di voci e acciottolio di terraglie riempivano la cucina nei pressi della Grande Sala, dove quella sera l’Amyrlin Seat e il suo gruppo avrebbero cenato. Cuoche e sguattere lavoravano quasi di corsa; i cani trotterellavano dentro le ruote di giunco per girare gli spiedi. Rand attraversò in fretta il locale caldo e pieno di vapore e di aromi di spezie e di cucina. Nessuno gli rivolse una seconda occhiata: erano tutti troppo occupati.

I corridoi sul retro, dove c’erano i piccoli alloggi della servitù, parevano formicai presi a calci: uomini e donne si affrettavano a indossare la livrea migliore. I bambini giocavano negli angoli, per tenersi fuori dei piedi: i maschi agitavano spade di legno, le femmine giocavano con bambole intagliate e alcune dicevano già che la propria bambola era l’Amyrlin Seat. La maggior parte delle porte era aperta e i vani erano chiusi da tendaggi a perline. Di norma questo indicava che i visitatori potevano entrare, ma in quel momento rivelava solo che gli inquilini avevano fretta. Anche quelli che rivolsero a Rand un inchino, quasi non si fermarono.

Se uno di loro, durante il servizio, avesse udito che cercavano Rand, avrebbe detto d’averlo visto lì? Avrebbe osato rivolgere la parola a una Aes Sedai? A un tratto Rand ebbe l’impressione che tutti lo esaminassero di nascosto, lo soppesassero, riflettessero alle sue spalle. Perfino gli sguardi dei bambini gli parvero più penetranti. Era solo uno scherzo della sua immaginazione, lo sapeva; ma quando lasciò gli alloggi della servitù, si sentì come chi evita una trappola l’attimo prima che scatti.

Alcune parti della rocca erano deserte per l’improvvisa vacanza di chi abitualmente vi lavorava. Come la fucina per le corazze, con i fuochi spenti e le incudini silenziose. Fredda. Senza vita. Eppure non deserta. Rand sentì un formicolio e si girò di scatto. Nessuno. Solo i grandi armadi quadrati per gli utensili e i barili per la tempra, pieni d’olio. Si sentì rizzare i capelli e tornò a girarsi. Martelli e corregge appesi alla parete. Guardò con ira l’ampio locale. Non c’era nessuno, era solo immaginazione. Il vento di poco prima e l’arrivo dell’Amyrlin Seat erano più che sufficienti a giustificare il nervosismo.

Per un attimo, nel cortile dell’armeria, fu sferzato dal vento e sobbalzò, pensando che l’aria volesse afferrarlo. Per un istante sentì di nuovo il debole lezzo di marciume e udì dietro di sé una risatina maliziosa. Spaventato, si girò tutt’intorno, scrutando cautamente ogni cosa. Nella corte, lastricata con pietre scabre, c’era solo lui. Si allontanò di corsa, ma credette di udire ancora alle spalle la risata, anche se non c’era più il vento.

Nella corte della legnaia sentì di nuovo la presenza di qualcuno che lo scrutava da dietro i mucchi di legna da ardere tenuti sotto le lunghe tettoie o da sopra le cataste di tavole stagionate davanti alla bottega del falegname, al momento chiusa, dalla parte opposta. Si rifiutò di guardarsi intorno, di pensare a come un paio d’occhi si muovesse così rapidamente da un punto all’altro. Sempre lo stesso paio d’occhi, ne era sicuro. Diventava già pazzo? Ebbe un brivido. No, Luce santa, ancora no! Con la schiena rigida, percorse cautamente la corte della legnaia e l’invisibile presenza lo seguì.

Giù nei corridoi illuminati solo da qualche torcia di giunchi, nei magazzini pieni di sacchi di fagioli e piselli secchi, di rastrelliere con rape e bietole raggrinzite, di botti di vino e barili di carne salata e barilotti di birra chiara, gli occhi erano sempre lì, a volte seguendolo, a volte già in attesa che entrasse. Non udì mai rumore di passi, se non dei propri, mai uno scricchiolio di porta, tranne quando era lui ad aprirla o a chiuderla, ma gli occhi erano lì. Luce santa, diventava davvero pazzo!

Poi aprì la porta di un altro magazzino e udì con sollievo voci umane. Lì non ci sarebbero stati occhi invisibili. Entrò.

Metà locale era pieno di sacchi di granaglie impilati fino al soffitto. Nell’altra metà, c’era un gruppetto d’uomini in ginocchio a semicerchio verso la parete. Dal farsetto di pelle e dal taglio di capelli parevano tutti servitori: nessuno aveva il ciuffo dei soldati né la livrea dei domestici. Ma che cosa combinavano? Fra i mormorii si udì il rumore di dadi e una risatina rauca dopo il tiro.

Loial li guardava giocare a dadi e si lisciava il mento, pensieroso, con un dito più grosso d’un pollice umano e la testa che sfiorava le travi del soffitto. I giocatori non lo degnavano di un’occhiata. A dire il vero, gli Ogier non erano comuni, nelle Marche di Confine o in qualsiasi altra regione, ma nello Shienar erano conosciuti e accettati e poi Loial si trovava a Fal Dara da parecchio tempo, tanto da non suscitare più commenti. L’Ogier indossava una veste scura, dal colletto rigido, abbottonata fino al collo e svasata in vita, sopra stivali alti; una delle ampie tasche era rigonfia e conteneva roba pesante. Un libro, si disse Rand, che conosceva bene Loial. Anche se guardava giocare, l’Ogier aveva sempre un libro a portata di mano.

Suo malgrado, Rand sorrise. Loial aveva spesso questo effetto, su di lui. L’Ogier sapeva molto di certe cose e poco di altre, ma pareva ansioso di apprendere tutto. Rand ricordava il loro primo incontro, quando nel vedere le orecchie pelose, le sopracciglia cadenti simili a un paio di baffoni e il naso largo quasi quanto il viso, aveva creduto d’avere di fronte un Trolloc. Se ne vergognava ancora. Ogier e Trolloc. Myrddraal e mostri delle favole per spaventare i bambini. Creature uscite da storie e leggende: così li considerava, prima di lasciare Emond’s Field. Ma da allora aveva visto in carne e ossa numerose creature leggendarie, per cui non era più sicuro di niente. Aes Sedai e occhi invisibili e vento che afferrava e non mollava la presa. Perdette il sorriso.

«Le storie sono tutte vere» mormorò.

Loial agitò le orecchie e girò la testa; vide Rand e con un sorriso gli si avvicinò. «Ah, sei qui» disse, con voce simile al basso ronzio dei calabroni. «Non ti ho visto, al Benvenuto. Uno spettacolo al quale non avevo mai assistito. Due cose insieme: il Benvenuto dello Shienar e l’Amyrlin Seat. L’Amyrlin ha l’aria stanca, non ti pare? Non è facile, ricoprire la sua carica. Peggio che essere un Anziano, immagino.» S’interruppe, con aria pensierosa, ma solo per un attimo. «Dimmi, Rand, giochi a dadi anche tu? Qui fanno un gioco semplice, con soli tre dadi. Nello stedding ne usiamo quattro. Non mi lasciano giocare, sai? Dicono solo: “Gloria ai Costruttori” e non scommettono contro di me. Non mi sembra giusto. Usano dadi piuttosto piccoli.» Si guardò la mano, larga quanto bastava a coprire una testa. «Ma penso ancora che...»

Colpito da un’idea, Rand lo afferrò per il braccio. «Loial» disse in fretta «gli Ogier hanno edificato Fal Dara, vero? Conosci una via per uscire dalla rocca senza usare le porte? Un cunicolo, una tubazione di scarico, qualsiasi cosa che permetta il passaggio d’un uomo?»

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