Robert Jordan - La grande caccia
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«Ah, no? Forse non voglio che voi due veniate con me, per avervi sempre tra i piedi e vedere che vi cacciate nei pasticci aspettandovi che sia io a tirarvene fuori. Non avete mai pensato che potrei essere stufo di vedervi da qualsiasi parte mi giri? Sono stufo di vedervi sempre intorno.» Fu ferito dall’aria offesa sul viso di Perrin, ma continuò, inflessibile. «Qui alcuni mi ritengono un lord. Forse l’idea mi piace. Ma voi giocate a dadi con i mozzi di stalla. Quando andrò via, andrò da solo. Voi due potete andarvene a Tar Valon o a farvi impiccare, ma me ne andrò da solo.»
Il viso di Mat si era irrigidito e le dita che serravano l’elsa sotto la giubba erano sbiancate. «Se la pensi così...» disse il giovane, in tono gelido. «Credevo che fossimo... Come vuoi, Rand al’Thor. Ma se decido di andarmene nello stesso tuo momento, me ne vado e tu Stammi lontano.»
«Nessuno andrà da nessuna parte» disse Perrin «se le porte sono sbarrate.» Aveva ripreso a tenere gli occhi bassi. Dal gruppetto di giocatori contro la parete giunsero risate di derisione per chi aveva perduto.
«Che andiate via o restiate, da soli o insieme, non importa» disse Loial. «Tutt’e tre siete ta’veren. Me ne accorgo perfino io che non possiedo il Talento, solo notando quel che avviene intorno a voi. E lo dice anche Moiraine Sedai.»
Mat alzò le braccia. «Basta, Loial. Non voglio più sentirne parlare.»
Loial scosse la testa. «Ti piaccia o no, è vero. La Ruota del Tempo tesse il disegno dell’Epoca e usa come fili le vite degli uomini. E voi tre siete ta’veren , punti centrali della trama.» Basta, Loial.
«Per un certo periodo, la Ruota piegherà il Disegno intorno a voi, qualsiasi cosa facciate. E quel che farete è scelto dalla Ruota, più che da voi stessi. Col semplice fatto d’esistere, i ta’veren trascinano dietro di sé la storia e danno forma al Disegno, ma la Ruota intesse i ta’veren con un ordito più fitto degli altri uomini. Dovunque andiate e qualsiasi cosa facciate, finché la Ruota non decide diversamente, sarete...»
«Basta!» gridò Mat. I giocatori di dadi si girarono a guardare; Mat rivolse loro un’occhiata feroce, finché non tornarono a occuparsi del gioco.
«Scusami, Mat» rombò Loial. «So di parlare troppo, ma non intendevo.,.»
«Non me ne starò qui» disse Mat, alzando gli occhi verso le travi del soffitto «con un Ogier linguacciuto e uno sciocco la cui testa è troppo grande per il berretto che porta. Vieni, Perrin?» Perrin sospirò, diede un’occhiata a Rand, annuì.
Con un groppo in gola, Rand li guardò allontanarsi. Ma doveva andarsene da solo, non poteva farci niente.
Anche Loial li guardò, con aria preoccupata. «Rand, davvero non intendevo...»
«Cosa aspetti?» replicò Rand, aspro, «Vai con loro! Non capisco perché stai ancora qui, Non mi servi a niente, se non conosci una via per uscire dalla rocca. Vai! Vattene a trovare i tuoi alberi e i tuoi preziosi boschetti, se non li hanno già tagliati tutti, ed è una bella liberazione, se li hanno tagliati.»
Loial parve sorpreso e ferito. «Se vuoi così, Rand al’Thor...» rispose in tono sostenuto. Eseguì un rigido inchino e si allontanò dietro Mat e Perrin.
Rand si abbandonò contro una pila di sacchi di granaglie. Ormai aveva fatto il passo, si disse; i suoi amici sarebbero stati in pericolo, perché lui sarebbe impazzito, se avesse usato il Potere, e aveva un bel ripromettersi di non usarlo: non poteva correre il rischio.
Si accorse che i giocatori, ancora in ginocchio davanti alla parete, si erano girati a fissarlo. Gli shienaresi di qualsiasi classe sociale erano quasi sempre educati e cortesi, anche verso i nemici di sangue, e gli Ogier non erano mai stati nemici dello Shienar. I giocatori erano sconvolti e la loro espressione diceva che lui aveva sbagliato a comportarsi in quel modo con un Ogier, Si limitarono a fissarlo, ma Rand uscì dal magazzino, a passo malfermo, quasi l’avessero scacciato.
Come intontito attraversò altri magazzini in cerca di un luogo dove nascondersi finché non avessero riaperto le porte della rocca. Allora forse poteva nascondersi sul fondo d’un carro di provviste, ammesso che non esaminassero i carri in uscita e che non frugassero i magazzini e tutta la rocca. Cocciutamente si rifiutò di pensare a questa ipotesi e si concentrò nella ricerca d’un nascondiglio sicuro. Ma tutti — una cavità nei sacchi impilati, uno stretto passaggio tra la parete e le botti, un magazzino abbandonato per metà pieno di casse vuote e d’ombre — gli davano l’impressione che sarebbero stati frugati. E che lì non avrebbe trovato difficoltà a scoprirlo neppure il paio d’occhi che lo sorvegliava. Perciò continuò la ricerca, assetato, impolverato, con i capelli pieni di ragnatele.
E poi imboccò un corridoio scarsamente illuminato e scorse Egwene che veniva dalla sua parte e si soffermava a scrutare nei magazzini. Si era legata con un nastro rosso i capelli, lunghi fino alla cintola, e indossava, alla maniera dello Shienar, una veste grigia bordata di rosso. Nel vederla, Rand si sentì sopraffare dalla tristezza e da un senso di perdita assai peggiori di quando aveva scacciato Mat, Perrin e Loial. Era cresciuto col pensiero di sposare un giorno Egwene, pensiero da lei condiviso. Ma ora...
Egwene sobbalzò, quando Rand sbucò davanti a lei, ma si limitò a dire; «Ah, ecco dov’eri. Mat e Perrin mi hanno raccontato tutto. E anche Loial. Rand, so cosa cerchi di fare. Ma ti comporti proprio da sciocco.» Incrociò le braccia e lo guardò con severità. Rand si meravigliava sempre di come riuscisse a guardarlo dall’alto in basso, quando gli arrivava appena al petto e per giunta era di due anni più giovane.
«Bene» disse. A un tratto, nel vedere i capelli sciolti, si arrabbiò: nei Fiumi Gemelli, le donne adulte portavano la treccia e le ragazze non vedevano l’ora che la Cerchia delle Donne del villaggio dicesse loro che potevano portarla. «Vattene anche tu e lasciami in pace. Ormai la compagnia d’un pastore non ti serve più. Ci sono Aes Sedai in quantità. E non dire a nessuna d’avermi visto. Mi cercano e non mi va che le aiuti.»
Egwene divenne rossa di collera. «Credi che farei...»
Rand si girò per andarsene: Egwene, con un grido, si lanciò contro di lui e lo afferrò per le gambe. Ruzzolarono insieme sul pavimento di pietra e Rand si lasciò scappare di mano bisacce e fagotti. Brontolò per il colpo e per il dolore dell’elsa contro il fianco, e poi di nuovo quando lei si rialzò e si lasciò cadere sulla sua schiena come se fosse una poltrona. «Mia madre me lo diceva sempre: il modo migliore per imparare a trattare un uomo è imparare a cavalcare un mulo; la maggior parte delle volte hanno lo stesso cervello. Le altre, il mulo è più intelligente.»
Rand alzò la testa a guardarla. «Togliti di lì! Togliti! Egwene, se non ti togli» abbassò la voce, in tono minaccioso «ti farò qualcosa. Sai cosa sono,» Per buona misura le scoccò un’occhiataccia.
Egwene tirò su col naso. «Non lo faresti nemmeno se potessi. Non faresti male a nessuno. Comunque, non sei in grado d’incanalare a piacimento l’Unico Potere. Invece io prendo lezioni da Moiraine e se non ti mostri ragionevole, Rand al’Thor, ti do fuoco alle brache. Posso farlo benissimo. Mettimi alla prova.» All’improvviso, per un attimo la torcia più vicina contro la parete ebbe un rumoroso scoppio di fiamma. Egwene strillò, sorpresa, e guardò da quella parte.
Rand si rigirò, afferrò Egwene per il braccio, se la tolse di dosso e la spinse a sedere contro la parete. Si alzò a sedere anche lui e si ritrovarono l’uno davanti all’altra: Egwene si massaggiava vigorosamente il braccio.
«L’avresti fatto sul serio, eh?» l’assalì Rand, con rabbia. «Fai la stupida, con le cose che non capisci. Potevi ridurre tutt’e due a carbonella.»
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