Robert Jordan - La grande caccia
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Rand proseguì verso la meta, un’altra porta rinforzata in ferro, all’estremità opposta della corte, ma continuò a guardare.
Le Aes Sedai non badavano agli astanti e mantennero l’attenzione sulla portantina chiusa, ora al centro della corte. I cavalli a cui era legata se ne stavano immobili come se avessero a fianco il proprio stalliere, ma accanto alla portantina c’era solo un’altra donna, anche lei Aes Sedai, a giudicare dal viso; e non badava ai cavalli: reggeva dritto davanti a sé, a due mani, un lungo bastone sormontato da una fiamma dorata.
Dall’altra parte della corte, di fronte alla portantina, c’era lord Agelmar, alto e impettito, con espressione indecifrabile. Indossava la giubba blu scuro, con le tre volpi rosse in corsa, emblema di Casa Jagad, oltre al falco nero in picchiata dello Shienar. Al suo fianco c’era Ronan, raggrinzito per gli anni, ma ancora dritto: lo shambayan portava un lungo bastone intagliato con tre volpi rosse in cima. Ronan era la controparte di Elansu nella gestione della rocca: shambayan e shatayan ; ma Elansu lasciava ben poco alle cure di Ronan, a parte le cerimonie e i compiti da segretario di lord Agelmar.
Tutti — Custodi, Aes Sedai, Signore di Fal Dara e il suo shambayan — erano immobili come pietra. La folla pareva trattenere il respiro. Controvoglia, Rand rallentò il passo.
All’improvviso Ronan batté tre volte il bastone sulle pietre del lastrico e nel silenzio proclamò: «Chi viene qui? Chi viene qui? Chi viene qui?»
La donna accanto alla portantina batté tre volte il bastone in risposta. «La Guardiana dei Sigilli. La Fiamma di Tar Valon. L’Amyrlin Seat.»
«Perché dovremmo montare la guardia?» domandò Ronan.
«Per la speranza dell’umanità» replicò la donna alta.
«Contro chi montiamo la guardia?»
«L’ombra a mezzodì.»
«Per quanto tempo monteremo la guardia?»
«Dal sorgere del sole al sorgere del sole, fin quando la Ruota del Tempo girerà.»
Agelmar s’inchinò, col ciuffo canuto mosso dalla brezza, «Fal Dara offre pane e sale e benvenuto» disse. «Benvenuta è l’Amyrlin Seat a Fal Dara, perché qui si monta la guardia, qui si mantiene il Patto. Benvenuta.»
La donna alta scostò la tenda e l’Amyrlin Seat scese dalla portantina. Capelli neri, età indefinibile di tutte le Aes Sedai, si raddrizzò e girò lo sguardo sugli astanti. Rand trasalì, quando lo sguardo passò dalla sua parte, come se ne fosse stato toccato. Ma lo sguardo passò oltre e si soffermò su lord Agelmar. Un servitore in livrea s’inginocchiò a fianco dell’Amyrlin Seat, reggendo su di un vassoio d’argento asciugamani ripiegati, ancora fumanti. Seguendo la tradizione, l’Amyrlin Seat si pulì le mani e con un panno umido si tamponò il viso. «Ti ringrazio per il benvenuto, figlio mio» disse. «Possa la Luce illuminare Casa Jagad. E possa illuminare Fal Dara e tutta la sua gente.»
Agelmar s’inchinò di nuovo. «Tu ci rendi onore, Madre» rispose. Era normale che lei lo chiamasse figlio mio e lui Madre, anche se il confronto tra le guance lisce dell’Amyrlin Seat e i tratti scabri di Agelmar faceva pensare che quest’ultimo fosse suo padre, se non suo nonno. «Casa Jagad è tua» proseguì lord Agelmar. «Fal Dara è tua.»
Da ogni parte si levarono grida d’entusiasmo che rimbalzarono come frangenti contro le mura della rocca.
Con un brivido Rand si affrettò verso la porta e la salvezza, senza badare adesso a chi urtava. Era colpa della sua stessa immaginazione, si disse; l’Amyrlin Seat non sapeva nemmeno chi era lui. Per il momento. Se avesse saputo chi era e che cos’era... Non volle pensarci. Si domandò se l’Amyrlin Seat fosse in qualche modo responsabile del vento in cima alla torre; le Aes Sedai erano in grado di influenzare gli elementi. Varcò la porta e la richiuse, tagliando fuori i clamori di benvenuto che ancora scuotevano la corte; solo allora trasse un sospiro di sollievo.
Anche lì i corridoi erano deserti. Rand li attraversò quasi di corsa; uscì in una corte più piccola, al cui centro zampillava una fontana, percorse un altro corridoio e alla fine si trovò nella stalla lastricata. La Stalla Padronale, costruita nelle mura della rocca, era alta e lunga, con ampie finestre sull’interno delle mura e due piani per alloggiare i cavalli. La bottega dalla parte opposta della corte era silenziosa: il maniscalco e i suoi aiutanti erano andati ad assistere al Benvenuto.
Thema, il capo stalliere dal viso scuro come cuoio, lo accolse sulla porta, con un ampio inchino, toccandosi fronte e cuore in segno di saluto. «Spirito e cuore al tuo servizio, milord» disse. «Cosa posso fare per te?» Non portava il ciuffo dei guerrieri: i capelli gli coprivano la testa, come una ciotola grigia capovolta.
Rand sospirò. «Te l’avrò detto mille volte, Thema: non sono lord.»
«Come milord preferisce.» Stavolta l’inchino dello stalliere fu anche più profondo del solito.
Il guaio nasceva dalla similarità dei nomi: Rand al’Thor e al’Lan Mandragoran. Secondo l’usanza del Malkier, il prefisso reale al’ qualificava Lan come Sovrano, anche se il Custode stesso non lo adoperava mai. Nel caso di Rand, al’ faceva solo parte del nome, anche se, in tempi in cui il territorio dei Fiumi Gemelli era chiamato in un altro modo, significava ‘figlio di’. Però alcuni servi nella rocca di Fal Dara si erano convinti che Rand fosse un re, o quanto meno un principe. A furia di protestare, Rand era riuscito solo a scendere al rango di lord; però non aveva mai visto inchini così profondi, nemmeno nei confronti di lord Agelmar.
«Ho bisogno che Red sia sellato» disse. Sapeva che era inutile provare a sellarlo da solo: Thema non gli avrebbe permesso di sporcarsi le mani. «Passerò qualche giorno a visitare i territori intorno alla città.» Una volta in sella al grande baio, in qualche giorno sarebbe arrivato al fiume Erinin o avrebbe varcato la frontiera con l’Arafel. E allora nessuno l’avrebbe più trovato.
Lo stalliere si piegò quasi in due e rimase in quella posizione. «Chiedo perdono, milord» mormorò con voce fioca. «Non posso ubbidire.»
Rand arrossì d’imbarazzo e si guardò ansiosamente intorno: non c’era nessuno in vista. Afferrò per la spalla lo stalliere e lo tirò in piedi. «Perché? Thema, guardami, per favore. Perché non puoi?»
«Mi è stato ordinato, milord» rispose Thema, sempre sottovoce. Continuò a tenere bassi gli occhi, non per la paura, ma per la vergogna di non poter esaudire la richiesta di Rand. Per la gente dello Shienar, la vergogna equivaleva al marchio da ladro per altri. «Nessun cavallo può lasciare questa stalla, fino a nuovo ordine. Né le altre stalle della rocca, milord.»
Rand aveva aperto bocca per dire che tutto era a posto, invece si umettò le labbra. «Nessun cavallo di nessuna stalla?»
«Sì, milord. L’ordine è arrivato solo da pochi minuti. Anche tutte le porte sono chiuse, milord. Nessuno può entrare né uscire, senza permesso. Nemmeno la ronda cittadina, a quanto m’hanno detto.»
Rand deglutì con forza, ma non riuscì a cancellare l’impressione che dita invisibili gli stringessero la gola. «L’ordine, Thema. Proviene da lord Agelmar?»
«Naturalmente, milord. Chi altri? Certo, lord Agelmar non l’ha comunicato di persona né a me né a colui che me l’ha trasmesso, ma chi altri a Fal Dara può dare un ordine del genere?»
Chi altri? Rand sobbalzò al rintocco della campana maggiore della torre campanaria della rocca. Le altre campane si unirono al frastuono, imitate poco dopo da tutte quelle della città.
«Se posso osare» disse lo stalliere, alzando la voce per farsi udire al di sopra dello scampanio «milord sarà di certo assai contento.»
«Contento? E perché?»
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