Robert Jordan - La grande caccia
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Tutti quegli abiti avrebbero fatto un pacco grosso quanto lui. Eppure si era di nuovo abituato al piacere delle camicie pulite, a non portare le stesse brache un giorno via l’altro, finché per il sudore e per la polvere non diventavano rigide come gli stivali, e poi continuare a portarle. Dal cassettone prese le bisacce da sella e le riempì con quel che ci stava; poi, con riluttanza, allargò sul letto il mantello elegante e vi ammucchiò il resto. Piegato con il pericoloso emblema all’interno e legato con una cordicella in modo da appenderlo in spalla, non era molto diverso dai fagotti dei comuni viandanti.
Uno squillo di trombe filtrò dalle feritoie.
«Appena ho tempo, scucio quel ricamo» borbottò Rand. Mise nell’armadio il resto degli abiti, cioè la maggior parte: inutile lasciare prove della fuga in bella vista per il primo che avesse messo il naso nella stanza.
Ancora accigliato, s’inginocchiò accanto al letto. Nello Shienar, le piattaforme piastrellate che sostenevano i letti erano in realtà delle stufe: un piccolo fuoco, rincalzato per durare tutta la notte, teneva caldo il letto anche nelle peggiori notti d’inverno. Al momento, le notti erano fredde, ma per scaldarsi bastavano le coperte. Rand aprì lo sportello della camera di combustione ed estrasse un fagotto che non poteva abbandonare. Per fortuna, si disse, Elansu non aveva pensato di frugare anche lì alla ricerca di vecchi indumenti.
Posò sulle coperte il fagotto e ne aprì un lembo. L’involucro era un manto da menestrello, rovesciato in modo da nascondere le toppe multicolori, di ogni forma e sfumatura immaginabili. Il mantello in sé era in buono stato: le toppe erano l’emblema di menestrello.
Il fagotto conteneva due foderi di cuoio duro. Nel più grande c’era un’arpa che Rand non toccava mai. «L’arpa, ragazzo, non è fatta per le dita maldestre d’un contadino» gli aveva detto una volta Thom. L’altro fodero, lungo e sottile, conteneva il flauto intarsiato d’oro e d’argento che più d’una volta Rand aveva usato per guadagnarsi vitto e alloggio. Thom Merrilin, il menestrello cui appartenevano fagotto e contenuto, prima di morire gli aveva insegnato a suonare il flauto. Rand non poteva toccare lo strumento senza rivedere Thom, con gli acuti occhi azzurri e i lunghi baffi bianchi, mentre gli metteva fra le braccia il fagotto e gli gridava di scappare. E poi anche Thom si era messo a correre, ma nell’altra direzione, con i coltelli da lancio che gli comparivano fra le dita come per magia, quasi desse spettacolo, e aveva affrontato il Myrddraal che veniva a ucciderli.
Con un brivido, Rand richiuse il fagotto. «È tutto finito» disse. Pensò al vento in cima alla torre e ripeté le parole di Lan: «Accadono cose bizzarre, così vicino alla Macchia.» Non era sicuro di crederci e non era sicuro del significato che Lan aveva voluto dare alla frase. In ogni caso, anche senza l’arrivo dell’Amyrlin Seat, già da un pezzo era tempo che lui se ne andasse da Fal Dara.
Indossò la giubba messa da parte, di un bel verde scuro (gli ricordava le foreste di casa, la fattoria di Tam nel Westwood dov’era cresciuto, il Waterwood dove aveva imparato a nuotare) e si agganciò alla cintura la spada con l’airone e dall’altro lato la faretra piena di frecce. L’arco, senza la corda, era appoggiato in un angolo, insieme con quelli di Mat e di Perrin; alto una spanna più di lui, se l’era fabbricato da solo dopo l’arrivo a Fal Dara; oltre lui, solo Lan e Perrin riuscivano a tenderlo. Infilò nelle corde dei due fagotti il rotolo di coperte da viaggio e il nuovo mantello e se li appese alla spalla sinistra; vi mise sopra le bisacce da sella e prese l’arco. Doveva tenere libero il braccio destro per far credere d’essere pericoloso. Forse qualcuno l’avrebbe creduto davvero.
Socchiuse la porta e vide che il corridoio era quasi deserto: vi passava in fretta un servitore in livrea che non lo degnò d’uno sguardo. Appena il rumore di passi si affievolì, Rand uscì nel corridoio.
Cercò di camminare con naturalezza e noncuranza, ma con le bisacce in spalla e i fagotti sulla schiena pareva proprio quel che era: uno che si mette in viaggio e non intende tornare. Le trombe mandarono un altro richiamo che suonò più debole, lì dentro la rocca.
Rand aveva un cavallo, un alto destriero baio, nella stalla di tramontana, detta Stalla Padronale, nei pressi della porta secondaria usata da lord Agelmar per le uscite a cavallo. Ma né il signore di Fal Dara né i suoi familiari sarebbero usciti, quel giorno; e forse nella stalla ci sarebbero stati soltanto i mozzi. Dalla stanza di Rand c’erano due percorsi per arrivare alla Stalla Padronale: uno, intorno alla rocca, dietro il giardino privato di lord Agelmar, poi giù dalla parte opposta, passando da dentro la bottega del maniscalco, di sicuro deserta. Questo percorso richiedeva un certo tempo, quanto bastava perché iniziassero le ricerche, prima che Rand arrivasse al cavallo. L’altro era molto più corto, ma bisognava passare dalla corte esterna, dove in quel momento giungeva l’Amyrlin Seat con una decina d’altre Aes Sedai.
Al solo pensiero Rand si sentì accapponare la pelle: aveva avuto una razione di Aes Sedai sufficiente per qualsiasi vita normale. Una era già troppo. Le storie dei menestrelli lo dicevano e lui l’aveva provato di persona. Ma non si stupì, quando i piedi lo portarono verso la corte esterna. Non avrebbe mai visto la leggendaria Tar Valon, ma poteva dare un’occhiata all’Amyrlin Seat, prima d’andarsene. Equivaleva a vedere una regina. Non c’era niente di pericoloso, in una semplice occhiata da lontano. Avrebbe continuato a muoversi e sarebbe andato via prima ancora che l’Amyrlin Seat sapesse che era lì.
Aprì la pesante porta listata di ferro e uscì nella corte esterna. La gente affollava i camminamenti d’ogni muro: soldati, servitori in livrea, domestici ancora sporchi, l’uno accanto all’altro, con bambini seduti a cavallaccio per guardare da sopra la testa degli adulti o infilati a scrutare da mezzo le ginocchia. Ogni piattaforma per gli arcieri era gremita e c’era anche gente che guardava dalle feritoie. Una fitta folla, simile a un muro umano, costeggiava la corte. Tutti aspettavano in silenzio.
Rand si avviò lungo il muro, davanti alle fucine e alle botteghe dei fabbricanti di frecce (Fal Dara era una roccaforte, non un palazzo, nonostante le dimensioni e la grandiosità, e in essa ogni cosa era vista sotto questa luce), scusandosi sottovoce con chi urtava. Qualcuno si girò, accigliato; due o tre diedero una seconda occhiata alle bisacce e ai fagotti; ma nessuno disse niente, La maggior parte non si prese nemmeno la briga di girarsi allo spintone.
Rand riusciva facilmente a guardare da sopra la testa di quasi tutti, quanto bastava a vedere che cosa accadeva nella corte. Proprio all’interno della porta principale, sedici uomini in fila erano fermi accanto al proprio cavallo. Non ce n’erano due con lo stesso tipo d’armatura e di spada, e nessuno assomigliava a Lan, ma Rand non dubitò che fossero Custodi: avevano tutti l’aria di chi vede e ode cose che agli altri sfuggono. Parevano micidiali come un branco di lupi, In comune avevano un’unica cosa: il mantello cangiante che Rand aveva visto per la prima volta addosso a Lan, un mantello che spesso pareva confondersi con l’ambiente.
Una decina di passi davanti ai Custodi c’erano alcune donne in fila, col cappuccio del manto abbassato, ferme accanto alla testa del proprio cavallo. Rand ora riuscì a contarle: quattordici. Quattordici Aes Sedai. Alte e basse, snelle e grassocce, more e bionde, capelli corti o lunghi, sciolti o a treccia, indossavano tutte abiti di taglio e di colore diversi: analogamente ai Custodi, non ce n’erano due uguali. Eppure anche loro avevano una uniformità che risaltava solo quando si trovavano insieme come in quel momento: parevano tutte senza età. Da quella distanza, Rand le avrebbe ritenute giovani, ma sapeva che da vicino avrebbero avuto lo stesso aspetto di Moiraine. Giovanile, ma non giovane: viso liscio eppure troppo maturo, occhi troppo esperti.
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