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Philip Dick: La svastica sul sole

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In questo romanzo di fantascienza, considerato uno dei più autentici classici della science fiction americana, Philip K. Dick ci descrive il quadro di come potrebbe essere un mondo in cui il nazismo avesse vinto la guerra mondiale. Parlare di nazismo e delle sue colpe potrebbe sembrare un tema troppo importante e doloroso per farne oggetto di un romanzo di fantascienza, ma Dick, nella Svastica sul sole, ci dimostra come invece la fantascienza possa diventare un modo assai efficace per ritrarre sotto un aspetto nuovo la lucida, razionale follia del nazismo e il tumulto di pensieri confusi e malati che porta con sé e trasmette alle persone ad esso asservite: nel mondo descritto da Dick, l’Asse ha vinto la guerra, l’Italia ha preso le briciole, e l’Africa è stata distrutta in un “esperimento”, Giappone e Germania si sono spartiti il mondo, e il credo della superiorità razziale “Ariana” si è talmente compenetrato nelle altre nazioni da togliere loro ogni volontà. Vincitore del premio Hugo per il miglior romanzo in 1963.

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«A Denver stanno costruendo una di quelle piste termoresistenti, in modo che possano atterrarvi i razzi della Lufthansa,» disse Juliana.

Nessuno dei tre uomini si mosse o parlò. Gli altri clienti erano rimasti seduti, e osservavano in silenzio.

Alla fine il cuoco disse: «Al tramonto ne è passato uno.»

«Non era diretto a Denver,» disse Juliana. «Stava andando a est, verso la Costa.»

Lentamente i due camionisti tornarono a sedersi. Il più anziano borbottò: «Me ne dimentico sempre; c’è un po’ di giallo, da queste parti.»

Il cuoco ribatté: «I giap non hanno mai ucciso ebrei, né durante la guerra né dopo. E non hanno mai costruito forni.»

«Peccato che non lo abbiano fatto,» disse il camionista. Poi riprese la tazza di caffè e si rimise a mangiare.

Un po’ di giallo , pensò Juliana. Sì, immagino che sia così. Noi altri vogliamo bene ai giap.

«Dove vi fermate?» chiese, rivolta al camionista più giovane, Joe, «questa notte.»

«Non lo so,» rispose Joe. «Sono sceso dal camion solo per venire qui. Ma questo stato non mi piace. Forse dormirò nel camion.»

«Il motel Honey Bee non è male,» suggerì il cuoco.

«D’accordo,» disse il camionista più giovane. «Forse andrò là. Se a loro non disturba che io sia italiano.» Aveva un accento ben definito, benché si sforzasse di nasconderlo.

Juliana lo guardò. È l’idealismo , pensò, che lo amareggia così tanto. Ha chiesto troppo alla vita. Sempre in movimento, senza sosta, e sempre oppresso da qualcosa. Io sono come lui; non sono stata capace di vivere sulla costa occidentale e alla fine non riuscirò a vivere neanche qui. Non erano così anche i nostri vecchi? Ma, pensò, adesso la frontiera non è qui; è sugli altri pianeti.

Potremmo fare domanda, io e lui , pensò Juliana, per partire su uno di quei razzi che trasportano coloni. Ma i tedeschi scarterebbero lui per il colore della pelle e me per il colore dei capelli, troppo neri. Quei finocchi delle SS, nordici pallidi e magri, che si addestrano nei loro castelli bavaresi. Questo tizio — Joe come-si-chiama — non ha nemmeno l’espressione giusta in faccia; dovrebbe avere quello sguardo freddo ma in qualche modo entusiasta, come se non credesse in nulla ma nutrisse nello stesso tempo una fede assoluta in qualcosa. Sì, è così che sono. Non sono idealisti come Joe e me; sono dei cinici con una fede totale. È una specie di malformazione cerebrale, come una lobotomia… quella mutilazione che gli psichiatri tedeschi eseguono come misero surrogato della psicoterapia.

Il loro è un problema legato al sesso , decise; negli anni 30 lo hanno trasformato in qualcosa di sporco, e col tempo la cosa non ha fatto che peggiorare. Cominciò Hitler con sua… chi era? Sua sorella? Sua zia? Sua nipote? E nella sua famiglia c’erano già unioni fra consanguinei; sua madre e suo padre erano cugini. Tutti commettono incesto, tornando al peccato originale di desiderare la propria madre. Ecco perché quelle checche aristocratiche delle SS hanno quei sorrisi affettati, quella bionda innocenza da bambini; si stanno risparmiando per mammina. O per qualcuno di loro.

E chi è mammina, per loro? Si chiese Juliana. Il capo, Herr Bormann, che si dice stia per morire? O… l’Ammalato.

Il vecchio Adolf, che si vocifera sia in manicomio chissà dove, a consumare i suoi giorni nella paresi senile. Sifilide del cervello, che risale ai tempi in cui era un povero barbone, in quel di Vienna… giaccone nero, biancheria sporca, pensioncine d’infimo ordine.

Ovviamente, era l’ironica vendetta di Dio, uscita da qualche film muto. Quell’uomo orrendo abbattuto da una sozzura ulteriore, lo storico flagello della depravazione umana.

E l’aspetto più terribile era che l’attuale Impero Tedesco era un prodotto di quel cervello. Dapprima un partito politico, poi una nazione, poi la metà del mondo. Ed erano stati gli stessi nazisti a diagnosticarlo, a identificarlo; quel ciarlatano di medico erborista che aveva curato Hitler, quel dottor Morell che aveva somministrato a Hitler un farmaco appena brevettato chiamato le Pillole Antigas del Dottor Koester… in origine era uno specialista in malattie veneree. Lo sapevano tutti, eppure il bla-bla del Capo era ancora sacro, era ancora come la Bibbia. Quelle idee avevano contagiato ormai un’intera civiltà e, come spore maligne, i ciechi, biondi finocchi nazisti stavano sciamando dalla Terra verso gli altri pianeti, spargendo il contagio.

Ecco ciò che si ricava dall’incesto: follia, cecità, morte.

Brrr. Juliana fu scossa da un brivido.

«Charley,» chiamò ad alta voce il cuoco. «È pronta la mia ordinazione?» Si sentiva assolutamente sola; si alzò in piedi e camminò verso il bancone, sedendosi accanto alla cassa.

Nessuno le fece caso, a parte il giovane camionista italiano; i suoi occhi neri la fissavano intensamente. Joe, si chiama. Joe che cosa? Si chiese la donna.

Osservandolo da vicino, Juliana si rese conto che non era così giovane come aveva creduto. Era difficile dargli un’età; quell’intensità che lo permeava confondeva il suo giudizio. Continuava a passarsi una mano fra i capelli, pettinandoli all’indietro con dita nervose, rigide. Quest’uomo ha qualcosa di speciale , pensò lei. Emana un sentore di… morte. Quel fatto la sconvolse, e nello stesso tempo la attrasse. In quel momento il suo collega più anziano si era chinato verso di lui e gli stava bisbigliando qualcosa. Poi entrambi la osservarono, questa volta con un’espressione che non era semplice interesse maschile.

«Signorina,» disse il più anziano. Adesso erano tutti e due molto tesi. «Sa che cosa è questa?» Le mostrò una scatoletta bianca, piatta, di piccole dimensioni.

«Sì,» rispose Juliana. «Calze di nylon. Fibra sintetica fabbricata solo dal grande monopolio di New York, la I.G. Farben. Molto rare e costose.»

«Questo è un merito che bisogna riconoscere ai tedeschi; quella del monopolio non è una cattiva idea.» Il camionista più anziano passò la scatola al suo collega, il quale la sospinse con il gomito lungo il bancone, verso di lei.

«Ha una macchina?» le chiese il giovane italiano, sorseggiando il suo caffè.

Charley spuntò dalla cucina, con in mano il suo piatto.

«Potrebbe accompagnarmi lei.» I suoi occhi accesi e decisi la fissavano ancora, e lei sentì crescere il proprio nervosismo, così come l’incapacità di reagire. «In quel motel, o dovunque possa trascorrere la notte. Che ne dice?»

«Sì,» disse la donna. «Ho una macchina. Una vecchia Studebaker.»

Il cuoco rivolse un’occhiata prima a lei, poi al giovane camionista, infine le mise il piatto davanti, sopra il bancone.

L’altoparlante in fondo al corridoio annunciò: «Achtung, meine Damen und Herren [Attenzione, signore e signori].» Baynes sobbalzò sul sedile e aprì gli occhi. Dal finestrino sulla destra vide, giù in basso, le macchie verdi e marroni della terraferma, e più in là l’azzurro. Il Pacifico. Si rese conto che il razzo aveva iniziato la sua lunga, lenta discesa.

Prima in tedesco, poi in giapponese, infine in inglese, l’altoparlante spiegò che nessuno poteva fumare o slacciare la cintura del sedile imbottito. La discesa, riferì, sarebbe durata otto minuti.

In quel momento si accesero i retrorazzi, in modo così improvviso e rumoroso, facendo sussultare la nave con tale violenza, che diversi passeggeri boccheggiarono. Baynes sorrise e nel sedile di fronte a lui, al di là del corridoio, un altro passeggero, un giovane con i capelli biondi tagliati cortissimi sorrise anche lui.

«Sie furchten dasz… [Hanno paura che…]» cominciò il giovane, ma Baynes lo interruppe subito, spiegando in inglese: «Mi dispiace, non parlo tedesco.» Il giovane tedesco lo guardò a bocca aperta, con aria interrogativa, e allora Baynes gli ripeté la frase in tedesco.

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