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Jack Finney: Un mondo di ombre

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Jack Finney Un mondo di ombre

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Può ritornare il passato? E una donna può attraversare lo schermo invisibile che separa il suo tempo dal nostro? Nell’anno del centenario del cinema, questo affascinante romanzo di Finney costituisce l’omaggio di URANIA (e della fantascienza in generale) al mondo della settima arte. Un mondo di sguardi allucinati, di visioni terrificanti e sogni impossibili; un mondo di mostri e magie che diventano sotto i nostri occhi tangibili e vivi. Come gli spettri di Marion, come le ombre della nera villa adagiata in collina di questo romanzo, come il mondo del passato — anzi, il mondo senza tempo che s’infiltra nel nostro lasciando una traccia enigmatica e indelebile.

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Jack Finney

Un mondo di ombre

1

Caro figlio, solo un messaggio veloce per dirti che se tu e Jan siete sicuri di volere una vecchia casa vittoriana, penso che potrebbe andarvi anche molto peggio: quelle case hanno un fascino che manca completamente alla gretta architettura dei nostri giorni. Io stesso ho vissuto in una costruzione vittoriana durante il mio periodo a San Francisco, e ti scrivo soprattutto per dirti che se nel corso delle vostre spedizioni in cerca di una casa doveste trovarvi dalle parti di un posta che si chiama Buena Vista Hill, ti chiederei di vedere se quella casa esiste ancora e di farmi sapere. Era nell’ultimo isolato all’estremità sud di Divisadero Street, al numero 114, ed era un bell’edificio a due piani (io avevo l’appartamento a pianterreno), vecchio, col tetto a due falde su timpano, un bovindo, e una vista sulla città e sulla Baia da lasciare senza fiato. Ho ricordi carissimi di quella casa, e se riuscissi a trovarne una come quella sono certo che tu e Jan sareste felici lì… Per essere felici, molte volte è solo questione di decidere di esserlo. Non aggiungo altro!

Qui non ci sono grandi novità. Il solito febbraio schifoso di Chicago, anche se ultimamente non ha fatto troppo freddo. Sabato scorso…

Ero quasi in cima a una scaletta alta un paio di metri, e i miei capelli sfioravano il soffitto. Stavo aprendo e chiudendo ritmicamente le mani intorpidite. Le mie dita producevano un piccolo pop smorzato quando toccavano le palme. Portai le mani alle orecchie e restai in ascolto. Poi sollevai un piede per volta e ruotai la caviglia. Jan, inginocchiata ai piedi della scala, infilava manciate di brandelli bagnati di carta da parati in un cartone di Tide. Al rumore delle mie dita guardò su. Le dissi: — Sto eseguendo una danza. Di gioia. Perché mi diverto tanto. Che razza di ore sono?

— Le undici e dieci. — Jan indossava calzoni blu di cotone e un maglione nero a girocollo. Ha lunghi capelli scuri, quel giorno fermati da un nastro, e una carnagione chiara; e in quel momento, senza trucco, con la luce del sole che entrava dalle finestre nude del soggiorno vuoto, sembrava pallida.

— Le undici e dieci, e abbiamo cominciato alle otto e mezzo. Già quasi tre ore. Splendido. Delizioso. Figlio di puttana. Impiegheremo tutto il giorno, fino a quando sarà ora di correre all’aeroporto. E probabilmente anche tutto il prossimo weekend.

— Credevo che con quell’aggeggio la carta venisse via subito. — Annuì in direzione dell’apparecchio per togliere la tappezzeria, una scatoletta quadrata con un manico. Dal lato anteriore, perforato, si alzava una nebbia di vapore molto umido. Un tubicino di plastica andava dalla scatola a un serbatoio cromato sul pavimento, collegato a una presa elettrica.

— Se lo pensavi, la tua visuale della vita è marcia. Al di fuori degli spot pubblicitari televisivi, non c’è niente che si possa sbucciare senza fare fatica. — Raccolsi la scatola sparavapore, la appoggiai alla parete appena sotto il soffitto, e cominciai a farla andare in su e in giù come se stessi stirando la tappezzeria. Vedere la carta che diventava scura sotto il vapore era abbastanza divertente, ma per le mie braccia era una faticaccia. Vedevo briciole di carta che si stavano asciugando sulla mia faccia e sapevo di averne altre sui capelli. Li tengo pettinati all’indietro, però sono un po’ ribelli e lunghi come quelli di tanta altra gente. Io mi chiamo Nick Cheyney, fra parentesi, e ho trent’anni; Jan ne ha ventisette. Sono piuttosto alto, magro; il mio viso è stato descritto come “amabile”, e porto occhiali con la montatura di metallo. Quel giorno sfoggiavo calzoni da lavoro color marrone e molto sporchi, una logora camicia a strisce col colletto liso e un taglio a una spalla, e scarpe di tela in pessime condizioni, di una sporcizia da record mondiale, su piedi nudi.

Jan si alzò e andò in cucina, col cartone pieno appoggiato a un fianco. Tornò col cartone vuoto e due tazzone da caffè che teneva per i manici nella mano libera. Fu costretta a lasciare aperta la porta dell’ingresso, e il nostro cane, Al, un basset hound tricolore (il che significa marrone-bianco-e-nero, non rosso-bianco-e-blu), zampettò dentro. Mentre Jan attraversava la stanza diretta al sedile sotto la finestra, Al sedette su fogli umidi e arricciati di carta da parati per godersi le attività, e io non lo tradii. Gli strizzai l’occhio, e lui aprì la bocca in un sorriso, con la lingua che penzolava fuori. Adesso stavo lavorando col raschietto. La carta si raggrinziva in strisce a forma di bandierina che restavano appese inerti, oppure cascavano sul pavimento. Jan si accomodò sul sedile sotto il bovindo, mise le tazze sul davanzale, si girò e vide Al, che le sorrise cordialmente.

— Fuori! — Jan puntò l’indice. — Lo sai che non devi entrare qui! Seminerai la carta per tutta la casa! — Lui la scrutò con molta attenzione, chiedendosi se facesse sul serio. — Fuori! In cucina! Oppure esci a giocare. È una bella giornata. — Al si tirò su, guardò me in cerca d’aiuto.

— Dice che stai violando i suoi diritti civili.

— Oggi non ne ha. Adesso vai!

Al uscì a malincuore. Jan lo seguì fino alla porta. — Sporgi denuncia alla Protezione Animali, Al! — strillai. — Io testimonierò. — Usando entrambe le mani, passai il raschietto avanti e indietro fino a ripulire tutta intera la zona umida. — Ci siamo. Il primo assaggio dello strato numero tre. — La carta appena apparsa era decorata da una griglia marrone con rampicanti verde scuro. Scesi dalla scala, raggiunsi il bovindo e presi la mia tazza di caffè. — Allora? In che periodo la collochi? Primo Orribile? Tardo Atroce? — Sorseggiando il caffè, restammo a fissare la parete.

— Non so esattamente. Gli anni Trenta?

— Dio. Niente di più? Se dobbiamo togliere strato dopo strato fino ad arrivare al 1882 o quello che è, quando avremo finito questa stanza sarà più larga di mezzo metro quadrato. E noi saremo agli anni del tramonto.

— Lo so, però è interessante. Vedere in mezzo a quali cose ha vissuto altra gente. E saranno quasi tutti morti da un bel po’, suppongo. Sai una cosa? Senti, non metterti a prendermi in giro, perché lo so che è ovvio, però…

— Se solo quelle carte da parati potessero parlare?

— Sì.

— Probabilmente sarebbero di una noia micidiale. Starebbero a borbottare dei bei vecchi tempi. Se conosco queste pareti, e credimi, le conosco, non chiuderebbero mai il becco.

— Con te in giro, non riuscirebbero a spiccicare parola. Oh, vorrei tanto sapere chi ha vissuto qui, Nick! Quale donna ha scelto la carta coi rampicanti? Non è brutta. Che aspetto aveva? E chi si è sdraiato su un divano in questa stanza, a contare quante volte si ripete il disegno? Vorrei ci fosse un modo per saperlo. — Jan sorseggiò il suo caffè.

— Un modo c’è, per quelli di noi dotati di una certa sensitività. — Chiusi gli occhi. — Era una cicciona. Con occhietti cattivi da maialino. Nuda come un verme, coi suoi osceni tatuaggi che si contorcevano alla luce delle lampade a gas, ha ucciso il marito proprio in questa stanza.

— Potrebbe avere dato il via a una tradizione. Vediamo com’è lo strato successivo.

— No. Tu vuoi barare. Bisogna togliere uno strato per intero, in tutta la stanza, prima di poter guardare l’altro. Lo stesso principio, rispettato da tutti gli uomini, ignorato da tutte le donne, che vale per le scatole di cioccolatini. Bisogna finire lo strato superiore prima di…

— Oh, e dai. Di’ di sì alla vita. — Jan mise sul davanzale la sua tazza.

— Okay. — Bevvi un altro paio di sorsi di caffè, poi mi arrampicai sulla scala e cominciai a inumidire la carta che avevo appena messo a nudo. Passai lentamente il vaporizzatore avanti e indietro finché le parti bianche del disegno non furono quasi più distinguibili dal verde delle foglie. Un angolo di carta si staccò e si arricciò per un paio di centimetri sotto il suo stesso peso. Misi giù la scatola, afferrai l’angolo, lo abbassai dolcemente, e poco per volta apparve una decorazione rosa e verde: rose e foglie su uno sfondo bianco. — Okay, questo cos’è? Coloniale? Elisabettiano? Chaucheriano?

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