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Jack Finney: Un mondo di ombre

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Jack Finney Un mondo di ombre

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Può ritornare il passato? E una donna può attraversare lo schermo invisibile che separa il suo tempo dal nostro? Nell’anno del centenario del cinema, questo affascinante romanzo di Finney costituisce l’omaggio di URANIA (e della fantascienza in generale) al mondo della settima arte. Un mondo di sguardi allucinati, di visioni terrificanti e sogni impossibili; un mondo di mostri e magie che diventano sotto i nostri occhi tangibili e vivi. Come gli spettri di Marion, come le ombre della nera villa adagiata in collina di questo romanzo, come il mondo del passato — anzi, il mondo senza tempo che s’infiltra nel nostro lasciando una traccia enigmatica e indelebile.

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Jan lasciò passare un attimo, poi disse dolcemente: — Però tu l’hai visto.

— Ma certo. Si intitolava Ragazze focose. — Papà le sorrise. — Mi spiace, ma il titolo era quello. L’ho visto più di una volta, te lo posso assicurare, e mi sono sentito male come mai in vita mia. Perché quando l’ho visto ho capito che Marion aveva ragione. Ho avuto la certezza che avesse davanti a sé una vera carriera, forse una grande carriera. Non era particolarmente bella, però possedeva più vitalità e più… puro magnetismo animale, immagino si possa chiamare, di chiunque io abbia mai conosciuto. Quando lei era in una stanza, in qualunque posto, te ne rendevi conto. E non solo io. Tutti quanti. E quando usciva da una stanza, ti accorgevi anche di quello, come se si fossero abbassate le luci. Be’, nel film si capiva benissimo. A parte una brevissima apparizione nel finale, talmente veloce che non conta nemmeno, lei recita in una sola scena. Un party. La vedi chiacchierare con un gruppo di ammiratori. Tutto qui. Durava solo mezzo minuto, forse meno. Però le aveva procurato una parte nel film successivo, la parte che alla fine venne assegnata a Joan Crawford e che diede il via alla sua carriera. Ho pensato spesso che sarebbe dovuta essere la carriera di Marion. Perché lei aveva lo stesso fascino diretto, personale, lo stesso potere sugli spettatori che solo una manciata di star veramente grandi hanno avuto. Le attrici che non dimentichi mai, come la Garbo, la Crawford, Bette Davis. Sì, aveva una grande carriera davanti a sé. — Bevendo un altro sorso di caffè, papà guardò di nuovo la parete. — Leggete e piangete! — mormorò, e annuì. — Quel giorno aveva ragione su tutto, no?

2

Un paio di settimane più tardi, l’appartamento era in ottimo stato. Avevamo continuato a dipingere di sera e nei weekend. A quel punto, organizzammo un party, e la parete di Marion fu l’anima della festa. C’erano diciannove ospiti, molti amici dei giorni alla University of California di Berkeley, il posto dove Jan e io ci siamo conosciuti. Ce n’erano altri della Crown Zellerbach Company, l’azienda di Market Street dove lavoro. E la coppia del pianterreno, i Platt; Jan aveva fatto amicizia con Myrtle Platt alle cassette della posta del portico. Myrtle era un’allegra casalinga in sovrappeso, e dopo che lei e suo marito furono arrivati ed ebbero saputo tutto della parete (la prima cosa sulla quale ogni ospite doveva essere informato, ovviamente), lei scese a casa sua e tornò su con un enorme volume, una storia illustrata del cinema che io conoscevo, ma non potevo permettermi. Tutti si raccolsero attorno al libro, aperto sul tavolo che Jan aveva sistemato a ridosso di una parete, coi liquori e il necessario per preparare cocktail. E Myrtle sfogliò le pagine, in cerca di una foto da Ragazze focose. Ma non ce n’erano. Il film non veniva nemmeno menzionato.

Ellis Pascoe disse: — Quel film non è mai esistito. — Era un mio ex insegnante universitario, un ometto magro, barbuto, che mi raccontava sempre che il suo sogno sarebbe stato fare il professore a Oxford. — Non riconosci la grafia truccata di Nick, Jan? Lo sa Iddio se non la riconosco io, dopo tutte le sue prove scritte da semianalfabeta che ho dovuto leggere. Ti sta prendendo in giro. Quelle frasi le ha scritte lui per non dover togliere il resto della tappezzeria.

Drink alla mano, scrutando la parete di Marion, il gruppo azzardò ipotesi su ciò che poteva apparire su ulteriori strati della carta da parati dei Cheyney: un’enorme X sulla parete più grande, che sarebbe stata l’autografo di King Kong; un proclama di Walt Disney sulle bizzarre abitudini sessuali di Topolino. Ma non era possibile scacciare a forza di battute la realtà della grande scritta rossa. Conservava il suo mistero, e nessuno di noi, compresi Jan e me, poté impedirsi, in un momento o nell’altro della serata, di scrutare la parete di Marion. Dopo il party, mentre lavavamo i piatti, lasciammo entrare Al per uno spuntino di mezzanotte, prima di rimandarlo alla sua cuccia in cortile; e decidemmo che togliere il messaggio di Marion era del tutto fuori discussione: era diventato il pezzo forte di casa nostra.

Arrivò la primavera. Ci godemmo l’ultimo weekend della stagione a base di sci a Sugar Bowl, in marzo, e il weekend successivo un’amica di Jan dei tempi dell’università ci invitò a casa dei suoi a Tahoe, e andammo a fare sci d’acqua. A San Francisco c’è un meraviglioso nightclub ispirato ai vecchi tempi dell’età del jazz che si chiama Earthquake McGoon, e un paio di volte l’anno, in una cittadina della California, Volcano, il locale tiene un festival cinematografico. Invitano amici e clienti, noi compresi, e io non me lo perderei mai, a meno di avere una febbre da cavallo: grandi vecchi film della cineteca del dottor James Causey, della quale mi piacerebbe possedere anche i fondi di magazzino. Ci andammo; e vedemmo qualche nuovo film, leggemmo qualche libro, andammo a vedere un allestimento teatrale. Ci vennero a trovare amici, e noi ricambiammo le visite. In sei, un weekend, organizzammo un giro in bicicletta a Golden Gate Park. E a maggio, per il mio compleanno, Jan mi regalò un film a otto millimetri, Il segno di Zorro , con Douglas Fairbanks. Le costò cinquantacinque dollari e novantotto cent alla Blackhawk Film, molto più di quanto avrebbe dovuto spendere per il mio regalo, ma io fui felicissimo di avere la pellicola.

Arrivò l’estate, e cominciammo a parlare di cosa fare nelle mie tre settimane di ferie in luglio, però non mi veniva in mente niente che potesse essere il massimo del divertimento a costo zero. L’estate prima, eravamo stati a Tahoe per dieci giorni, e l’estate ancora prima a New York, per cui non muoverci quell’anno non ci dispiaceva poi molto. Per un paio di weekend uscimmo in barca nella Baia con qualche amico, e parlammo di comperare un’imbarcazione tutta per noi, ma sapevamo già di non potercela permettere. Io diedi una ritoccata alla vernice della Packard e le misi una marmitta nuova. E nel frattempo, in tutta questa grande allegria, continuai ad andare al lavoro dalle nove del mattino alle cinque e un quarto del pomeriggio, esclusi i compleanni di Lincoln e di Washington.

Una sera di giugno, tornando dal lavoro, scesi come al solito dal bus a due isolati da casa. Da lì, il percorso è quasi tutto in salita, e la giornata era stata piuttosto calda, sui trenta gradi, un clima splendido; così mi tolsi la giacca. La temperatura cominciava appena a scendere, mentre la prima nebbia calava sulla Baia. Salendo la collina di Buena Vista, con la giacca sulla spalla, con la panoramica della città che si espandeva sotto di me, mi sentii lieto come tutte le sere di quello spettacolo bianco pastello. E dello splendore della Baia, delle colline e montagne attorno, e di quanto restava della vecchia San Francisco. Gli speculatori interessati ai soldi stavano distruggendo la città il più in fretta possibile, bloccavano le vecchie visuali con edifici sempre più alti (lodati dal sindaco, approvati dai consiglieri comunali); e la distruzione della Baia con nuove costruzioni e inquinamento continuava. Ma c’era ancora parecchia bellezza da abbattere, prima che riuscissero a manhattizzare o milwaukizzare San Francisco; c’erano ancora molte cose belle da guardare. E io, cresciuto tra le pianure del Midwest, apprezzavo quel posto, e ormai ci vivevo da tanto tempo da sentirmene parte.

Arrivato al mio portico, leggermente senza fiato dopo la salita, pensai come sempre che avrei dovuto cominciare a fare jogging. E mi fermai a guardare un’altra volta la città, convinto di provare le stesse sensazioni di prima. Invece, in quel momento, senza un motivo comprensibile, venni trafitto da una perfida pugnalata di depressione. Era già successo, e c’ero abituato; com’ero abituato alla successione quasi automatica di pensieri che accompagnavano la depressione. L’idea stessa di quei pensieri mi annoiava e mi deprimeva a priori, così saltai quelli più grossi, i grandi problemi nazionali e internazionali dei quali sarete stanchi anche voi. Il pensiero successivo era l’idea che ormai da quasi cinque anni lavoravo in un posto che in teoria doveva essere solo un punto di passaggio fra l’università e chissà cosa; bastava solo che io scoprissi cosa realmente volevo fare. Ma per il momento, l’unica cosa che avessi scoperto era che non esisteva alcuna professione che mi interessasse sul serio. E nella mia testa aveva cominciato a prendere piede l’inquietante idea che quel lavoro (che era abbastanza gradevole, e nel quale riuscivo piuttosto bene, ma che non aveva il minimo rapporto con un solo tratto significativo della mia personalità) potesse essere permanente. Un giorno, incredibile!, avrei potuto trovarmi in pensione dopo avere trascorso tutta la mia vita lavorativa alla Crown Zellerbach. Poi giunse la consapevolezza che per Jan e me era l’ora di fare un figlio. Era un nostro desiderio, sul serio. A me piacciono i bambini, e piacciono anche a Jan, e prima o poi li avremo, ma come tanta gente avevamo deciso di concederci prima qualche anno senza problemi, e io non ero mai pronto a dire che gli anni senza problemi erano finiti. Poi c’era tutta una serie di altri pensieri altrettanto cupi e rituali. L’intera sequenza era diventata automatica, e io me ne stavo lì, col cervello quasi inerte, a fissare la città (centinaia di finestre erano un unico bagliore arancio nella luce del sole al tramonto), quando sentii aprirsi una finestra sopra il tettuccio del portico.

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