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Jack Finney: Un mondo di ombre

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Jack Finney Un mondo di ombre

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Può ritornare il passato? E una donna può attraversare lo schermo invisibile che separa il suo tempo dal nostro? Nell’anno del centenario del cinema, questo affascinante romanzo di Finney costituisce l’omaggio di URANIA (e della fantascienza in generale) al mondo della settima arte. Un mondo di sguardi allucinati, di visioni terrificanti e sogni impossibili; un mondo di mostri e magie che diventano sotto i nostri occhi tangibili e vivi. Come gli spettri di Marion, come le ombre della nera villa adagiata in collina di questo romanzo, come il mondo del passato — anzi, il mondo senza tempo che s’infiltra nel nostro lasciando una traccia enigmatica e indelebile.

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L’aeroporto è sempre affollato, ma a quell’ora e di quella stagione la situazione non era delle peggiori, e l’aereo era in orario. Eravamo di ritorno a casa per le sei e trenta, e lungo strada continuammo a chiacchierare per raccontarci le ultime novità. Non ce n’erano molte: papà e io ci tenevamo in contatto con una lettera ogni due settimane o giù di lì, e ogni tanto ci telefonavamo di sera. Andiamo piuttosto d’accordo, mio padre e io; mia madre è morta.

Quando svoltammo nel nostro isolato, era il tramonto a livello del terreno, ma in cielo restava ancora parecchia luce. Vedevamo la città, bianca pastello, distesa sotto la collina; ogni edificio risaltava nitido nell’aria lavata dalla pioggia. Un inizio di nebbia stava calando sulla Baia, e le luci arancio del Bay Bridge erano accese. Un bel momento per arrivare.

Mio padre scese, senza cappello, con la cravatta ancora a cavallo di una spalla dopo il viaggio a capote abbassata, e restò a guardare la casa mentre prendevo la sua valigia dal bagagliaio. Le finestre del soggiorno erano buie, ma mi parve di scorgere la macchia confusa del viso di Jan. Vedere quanto mio padre e io ci somigliamo risveglia sempre il suo interesse, e ancora una volta avrebbe fatto un paragone: stessa altezza, e lui magro come me. Papà è calvo, e la sua faccia ha una trentina d’anni più della mia, però è la stessa faccia, e io sono Nick junior. È un uomo intelligente, e negli occhi ha lo sguardo del tipo spiritoso. Quando chiusi il bagagliaio, dopo avere preso la valigia, e mi girai a guardarlo, lui annuì in direzione della casa. — È bello rivederla. — Poi scosse la testa. — E strano.

La casa, come tutte le altre su quel lato della strada, sorge su un crinale. C’è una lunga scalinata in cemento prima ancora di raggiungere i gradini in legno del portico. A metà della scalinata, l’imposta della finestra di mezzo sbatté e Jan si sporse a urlare un saluto. Papà sorrise e sventolò le mani. Sul portico, fui lieto di mettere giù per un attimo la valigia. Ci fermammo a guardare la città e la Baia, che adesso stava scomparendo molto in fretta sotto la nebbia. — L’ultima volta che mi sono trovato qui — disse papà — si poteva ancora vedere qualche veliero all’ancora. — Si girò a guardare le finestre dell’appartamento a pianterreno, al nostro fianco, ma le tendine erano tirate: ci viveva gente, e lui non poté dare un’occhiata al suo vecchio appartamento.

Jan, elegante in un completo arancio, ci aspettava in cima alla scala interna con Al, che cominciò ad abbaiare non appena si aprì la porta d’ingresso a pianterreno. Lo zittii minacciando di consegnarlo ai vivisezionisti, e lui mi guardò con aria molto attenta, rizzando le orecchie, chiedendosi se i “vivisezionisti” fossero generi commestibili. Papà gli parlò, e Al riconobbe un amico, e lo disse con la coda; aveva solo voluto chiarire a chi appartenesse quella casa, nel caso lo sconosciuto in arrivo avesse qualche dubbio. Quando fummo a metà della scala, Jan corse giù d’impulso a dare il benvenuto a papà. Si sentiva timida (la vidi arrossire), ma i suoi occhi erano eccitati. Papà mette la gente a proprio agio; è una vita che lo vedo verificarsi. Passò un braccio attorno alla vita di Jan, la baciò, la salutò, e salì con lei il resto dei gradini. Io allungai il braccio e diedi un pizzicotto a mia moglie. A papà Jan piace molto, veramente, ed ero certo che adesso lei si sentisse benissimo. — Proprio non vedo l’ora di chiedertelo! — la sentii dire. — Sai… — Jan si girò sul pianerottolo, mi vide agitare una mano ( Non dirglielo adesso! ), e si interruppe.

— So cosa? — Papà sorrise a Jan, poi si chinò ad accarezzare Al.

— Se la casa non è cambiata. Che effetto ti fa tornarci?

— Mi sembra di averla lasciata il mese scorso. Potrà anche parere idiota venire fin qui in aereo per una sola sera, soltanto per rivederla. Ma ne vale la pena, credimi. Soprattutto adesso che ci vivete voi due. È incredibile che siate qui.

Avevo appoggiato la valigia di papà sotto la rastrelliera per cappelli dell’ingresso. Superai i due e mi infilai in soggiorno. Jan stava dicendo: — L’abbiamo vista e ce ne siamo innamorati immediatamente. E quando abbiamo saputo che l’appartamento al primo piano era vuoto… — Scrollò le spalle, sorrise.

— Vieni qui — urlai. — Goditi il panorama prima che accenda le luci. — Loro entrarono e raggiunsero il bovindo. I lampioni esterni illuminavano debolmente la stanza, e potevamo vedere la città, adesso piena di luci, distesa davanti a noi, dall’orizzonte frastagliato delle montagne giù fino alle rive della Baia. Nick senior e Jan erano alla finestra; io stavo alle loro spalle. — I mobili resteranno nello scantinato finché non avremo rimesso in ordine la stanza — dissi in tono indifferente, e Jan mi scoccò un’occhiata: aveva intuito la falsa casualità di una frase studiata in anticipo. — Stiamo ancora togliendo la vecchia tappezzeria. Un lavoraccio infernale. — Fissando quel panorama smisurato, paragonandolo, immagino, a ciò che era un tempo, mio padre non rispose, e io mi spostai all’interruttore accanto alla porta. Esitai per un attimo. Fissando la sua schiena, mi chiesi se fosse il caso di farlo. Poi accesi il lampadario, e papà e Jan si voltarono, strizzando le palpebre nel nuovo bagliore. — E guarda cosa abbiamo scoperto stamattina — dissi distrattamente, e la testa di papà si girò a seguire il mio gesto.

— Oh, mio Dio — disse sottovoce lui, fissando l’enorme scritta rossa sulla parete.

Quando parlai, avevo la gola stretta. Per un’istante ero tornato ragazzo, e avevo paura di essermi spinto troppo in là con mio padre. — La conoscevi, papà?

Passarono un secondo o due, poi lui si voltò di scatto verso la finestra, girandoci le spalle. — Se la conoscevo — ripeté, in tono piatto. — Se conoscevo Marion Marsh. Oh, sì. Oh, sì, certo. — Si voltò di nuovo verso l’interno della stanza, scrutò la scritta sulla parete. Poi si avvicinò al muro, alzò le mani come se volesse toccare quelle parole, ma non lo fece. Si fermò davanti alla scritta, restò immobile per un momento, poi senza voltarsi a guardarci disse:

— Quando ha scritto quello ero qui con lei, in questa stanza. — Scosse la testa, colmo di meraviglia. — Avevo vent’anni. — Si chiuse nel silenzio per un altro momento. — Lo sapete come ha fatto a scrivere le righe più alte? — Si girò a guardarci. Adesso sorrideva. — Camminando sulla spalliera del divano. Coi tacchi alti. Sapeva che io avevo paura che cadesse. Ero pronto ad afferrarla se fosse scivolata, e invece c’è mancato poco che lei si mettesse a fare i salti mortali. Probabilmente era sbronza per tre quarti, ma forse no. Con lei era sempre difficile capirlo. Pensavi che fosse ubriaca, e non lo era. Poi pensavi che fosse sobria, ed era piena d’alcol. — Si girò a guardare di nuovo la parete, scuotendo lentamente la testa per meraviglia e stupore. — Ed è ancora qui. Ancora qui. Non posso crederci.

Jan disse: — Devo andare in cucina. Ho delle cose sul fuoco. Venite anche voi? Tutti e due. Non voglio perdermi una sola parola.

La cucina era tanto ampia da contenere un grosso tavolo rotondo di legno, adesso coperto da una tovaglia di lino con una decorazione a scacchi blu e bianchi, e apparecchiato per tre con la porcellana fine e i bicchieri azzurri. Attorno al tavolo, quattro sedie in legno vecchio stile; Jan le aveva smaltate a colori diversi, e le assicelle degli schienali erano di tutti e quattro i colori. C’era una vecchia stufa economica a gas, con lo sportello del forno, bianco, decorato dalla scritta WIDGEWOOD a lettere blu. Il lavandino era vecchio, con un gocciolatoio in legno pieno di crepe; dovevo sistemarlo. Il frigorifero era nuovo, come i due piani di lavoro coperti in formica, coi credenzini sotto; su un lato si apriva la porta della grande dispensa. Jan era davanti al fornello, con un grosso cucchiaio di legno in una mano, un cocktail nell’altra. Il grembiule era più lungo della gonna; Jan ha un paio di gambe molto, molto belle che mi interessano ancora enormemente. Avevo messo Al nel cortile sul retro con la sua cena. Papà e io eravamo a tavola, appoggiati agli schienali delle sedie, e sorseggiavamo i nostri drink.

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