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Jack Finney: Un mondo di ombre

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Jack Finney Un mondo di ombre

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Può ritornare il passato? E una donna può attraversare lo schermo invisibile che separa il suo tempo dal nostro? Nell’anno del centenario del cinema, questo affascinante romanzo di Finney costituisce l’omaggio di URANIA (e della fantascienza in generale) al mondo della settima arte. Un mondo di sguardi allucinati, di visioni terrificanti e sogni impossibili; un mondo di mostri e magie che diventano sotto i nostri occhi tangibili e vivi. Come gli spettri di Marion, come le ombre della nera villa adagiata in collina di questo romanzo, come il mondo del passato — anzi, il mondo senza tempo che s’infiltra nel nostro lasciando una traccia enigmatica e indelebile.

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— Nick?

— No. Nick resta in ufficio fino a tardi. Io sono il teppista di quartiere, Rupert lo Stupratore. Apra, signora. Oggi tocca a lei.

— Cosa ci fai lì?

— Sto in equilibrio su una gamba sola. Sto cercando di stabilire il record mondia…

— Vieni su, Nick! Ho qualcosa da farti vedere!

— Okay. — Mi girai verso la porta, ed estrassi la chiave, ma prima che potessi infilarla nella serratura, sentii Jan correre giù per le scale. Spalancò la porta e mi sorrise, tutta eccitata. Indossava il pullover e i calzoni grigi che aveva comperato col buono-regalo che sua madre le aveva donato per Natale. Aveva in mano una rivista di piccolo formato, Tv Guide , e il pollice era infilato tra le pagine. Non parlò. Aprì la rivista e puntò l’indice. Le brillavano gli occhi.

Giovedì 14 giugno , lessi in cima alla pagina, e vidi che l’unghia smaltata di Jan era appoggiata sul disegnetto a forma di schermo televisivo, con un 9 stampato in bianco. La data di quel giorno; il Canale 9 era la rete televisiva della zona della Baia. Le presi di mano la rivista e, mentre salivo le scale, lessi il pezzo. 21,30. ALLE ORIGINI DEL CINEMA. Ragazze focose, film muto degli anni Venti con Richard Abel e Blanche Purvell: bonacce piene di liquore, gioventù sfrenata, automobili veloci, e feste da capogiro. Accompagnamento al pianoforte basato sullo spartito originale di Mabel Ordway.

Sorridevo quando arrivammo al nostro pianerottolo. — Ragazza, tu non lo sai, ma probabilmente mi hai appena salvato la vita. — Baciai Jan, con molto trasporto: e lei arrossì. — Adesso come diavolo riuscirò ad aspettare fino alle nove e mezzo?

Alle nove e ventotto accesi il televisore del soggiorno, lo sintonizzai sul Canale 9, e aspettai che si materializzassero immagini e suoni. All’altro lato della stanza, Jan sedeva sul divano imbottito, e Al era sdraiato sul tappeto, più o meno fuori combattimento com’è di solito dopo cena. Arrivò il sonoro: la voce di un uomo con un sottofondo musicale. La musica crebbe di volume, e la voce svanì. Poi l’immagine si gonfiò sino a riempire lo schermo, ruotando lentamente dall’alto in basso. Sintonizzai i comandi, e l’immagine si fermò. Due uomini, su sedie di plastica, stavano l’uno di fronte all’altro. Uno ascoltava e annuiva a lenti cenni del capo; le labbra dell’altro si muovevano, ma non si udiva parola, perché la musica sovrastava completamente la voce. La telecamera indietreggiò, e i due cominciarono a rimpicciolire, senza smettere di parlare. Uno dei due rovesciò la testa indietro in una risata. Sembravano totalmente presi da ciò che stavano dicendo, al punto di non essersi accorti che il programma era finito.

Mi sedetti sul divano. Sullo schermo apparve il logo della stazione televisiva, KQED. Per un po’ di tempo, una ventina di secondi o più, le lettere rimasero lì, mute; c’era solo il ronzio del televisore. Dissi: — Questa sì è classe. Niente annunci pubblicitari. — Mi allungai sul divano, stesi le gambe, e appoggiai i piedi (portavo un paio di pantofole molto morbide) su Al, che si trovava esattamente al posto giusto. Lui alzò la testa, a guardare dapprima me, poi i miei piedi. Potevo leggergli nel pensiero. Si stava chiedendo quale fosse la mossa meno faticosa: fare lo sforzo di alzarsi e sfuggire alla mia portata, oppure restare sdraiato e sopportare in silenzio. Ci pensò su, poi riabbassò la testa; con un sospiro, mi pare. Gli dissi: — Questo fa parte del tuo mestiere di cane, Al. Non basta abbaiare ai quattro venti. Devi guadagnarti la tua scatoletta quotidiana di cibo per cani da settantanove cent. Si paga tutto. — Con uno sforzo supremo, lui sbatté due volte la coda sul pavimento, e io tolsi i piedi dal suo corpo. Il logo della stazione televisiva svanì, e apparve la scritta ALLE ORIGINI DEL CINEMA, sovrimpressa su una fotografia di Charlie Chaplin. L’improvvisa colonna sonora fu una tempesta di pianola meccanica. Un bel giovanotto, in giacca e cravatta a farfalla, spuntò sullo schermo. Lo sfondo dipinto alle sue spalle rappresentava la cassa di un cinematografo. Il giovanotto parlò in tono gradevole, e con aria apparentemente autorevole, dei film degli anni Venti. Le solite balle. Dissi: — Lo vedi il sorrisetto divertito? Indica che quello sa che i vecchi film sono un po’ ridicoli. Però nota la voce misurata, il tono accademico. Nessuno potrà mai accusarlo di prenderli in giro.

— Ma cos’hai stasera?

— Sono Samuel Johnson. La mia mente è un bisturi. Riesco a vedere dietro tutte le facciate fasulle. La verità è che per quanto possa sembrare ridicolo, sono eccitatissimo.

— Anch’io.

Lo schermo diventò scuro, e (con Jan protesa a spalle in avanti per l’entusiasmo) il titolo del film apparve a lettere bianche su un fondo nero che era sbiadito, non completamente nero. Ragazze focose , diceva incredibilmente, in un grazioso corsivo d’epoca. Un film Paramount. L’accompagnamento al pianoforte (non più una pianola meccanica, grazie a Dio) diminuì di volume fino a diventare uno sfondo quasi impercettibile, però di importanza essenziale: ci ritrovammo in un altro tempo, molto prima che il cinema possedesse il sonoro. I titoli di testa corsero veloci, e piuttosto concisi. Lo schermo tornò buio per un attimo; poi apparve un’enorme automobile con tanto di chauffeur che imboccava un sentiero circolare in ghiaia, passando fra due alti cancelli in ferro battuto. Jan mi strinse il braccio. — Non posso crederci ! La tensione mi uccide! Vedremo Marion Marsh!

L’auto sullo schermo rallentò, poi si fermò davanti alla scala in pietra di una grande casa di campagna. Mi protesi in avanti a scrutare, e riuscii a identificare l’ornamento sul radiatore: una Pierce Arrow. Apparve un sottotitolo: Una ricca villa di Long Island. Lo chauffeur aprì una portiera posteriore della berlina e aiutò a scendere un’anziana signora. La donna aveva gli occhialini col manico; indossava un vestito lungo e un cappello rotondo a tese larghe, leggermente curvo in alto. Dissi: — Sembra che abbia in testa una torta.

La scena cambiò: l’interno di una grande stanza (tappezzeria e lance incrociate alle pareti), con porte finestra spalancate che davano su una veranda in pietra, con un’imponente balaustra in pietra; dietro la veranda, un prato enorme si stendeva in distanza. Non riuscii a capire se fosse vero o fosse uno sfondo dipinto. L’anziana signora con gli occhialini col manico stava entrando nella stanza, e dalla veranda le andava incontro una giovane donna: Blanche Purvell, la star del film. In contrasto con l’abito della vecchia, il suo arrivava solo alle ginocchia ed era senza maniche. — Belle gambe — dissi, e sorrisi quando Jan mi lanciò un’occhiata.

Il ritmo della storia era veloce: Blanche Purvell era una ricca ereditiera, innamorata di un uomo povero che viveva nella città vicina, anche se la madre, la donna degli occhialini, non era d’accordo. Apparve il giovanotto. Consegnava generi di drogheria; portava un berretto bianco a punta curva, camicia bianca, cravatta, e un maglione. Con l’aiuto di una signora di mezza età in tenuta da cameriera, scaricò tutto da un cestino di vimini sul tavolo di una cucina molto strana, molto vecchiotta. Poi arrivò la ragazza. I due si scambiarono un sorriso d’amore mentre la cameriera non guardava, poi uscirono da una porta sul retro. Si incamminarono su una distesa d’erba, superarono un paio di campi da tennis dove gente giovane stava giocando. Mi chiesi dove fossero state girate quelle scene, e cosa ci fosse adesso al posto dell’erba: la rampa di una superstrada, probabilmente, oppure un centro commerciale con un parcheggio da cinque acri. La coppia proseguì verso un furgone, un Model T Ford nero con un tettuccio lungo e curvo che andava dal parabrezza alla sponda posteriore. Gli sportelletti laterali erano aperti. Era parcheggiato su una strada bianca.

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