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Philip Dick: La svastica sul sole

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In questo romanzo di fantascienza, considerato uno dei più autentici classici della science fiction americana, Philip K. Dick ci descrive il quadro di come potrebbe essere un mondo in cui il nazismo avesse vinto la guerra mondiale. Parlare di nazismo e delle sue colpe potrebbe sembrare un tema troppo importante e doloroso per farne oggetto di un romanzo di fantascienza, ma Dick, nella Svastica sul sole, ci dimostra come invece la fantascienza possa diventare un modo assai efficace per ritrarre sotto un aspetto nuovo la lucida, razionale follia del nazismo e il tumulto di pensieri confusi e malati che porta con sé e trasmette alle persone ad esso asservite: nel mondo descritto da Dick, l’Asse ha vinto la guerra, l’Italia ha preso le briciole, e l’Africa è stata distrutta in un “esperimento”, Giappone e Germania si sono spartiti il mondo, e il credo della superiorità razziale “Ariana” si è talmente compenetrato nelle altre nazioni da togliere loro ogni volontà. Vincitore del premio Hugo per il miglior romanzo in 1963.

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In un certo senso , pensò Childan, quasi quasi mi piacerebbe trasportare da solo le borse all’interno del Nippon Times Building, facendomi vedere da tutti. Che gesto grandioso! In realtà non è un comportamento illegale, e io non finirei in carcere. E mostrerei i miei veri sentimenti, l’aspetto di un uomo che non si mostra mai in pubblico. Ma…

Potrei farlo , pensò, se non ci fossero quei dannati schiavi negri che razzolano in giro; potrei sopportare di essere guardato da coloro che sono al di sopra di me, e potrei sopportare il loro disprezzo… in definitiva, mi disprezzano e mi umiliano tutti i giorni. Ma farmi vedere da individui inferiori, sentire il loro disprezzo… Come questo chink che pedala davanti a me. Se non avessi preso un taxi a pedali, se lui mi avesse visto mentre tentavo di andare a piedi a un appuntamento di lavoro…

Bisognava prendersela con i tedeschi, per questa situazione. Per la loro tendenza ad azzannare bocconi più grossi di quanto potessero masticare. Dopo tutto erano riusciti a malapena a vincere la guerra, e tutt’a un tratto si erano lanciati alla conquista del sistema solare, mentre in patria emanavano editti che… be’, almeno l’idea era buona. E in definitiva avevano avuto successo con gli ebrei, con gli zingari e con gli studiosi della Bibbia. E gli slavi erano stati ricacciati indietro di duemila anni, fino alle loro terre d’origine in Asia. Fuori dall’Europa, con grande sollievo di tutti. Rimandati a cavalcare gli yak e a cacciare con arco e frecce. E le grandi riviste patinate che si stampavano a Monaco e che circolavano in tutte le librerie e le edicole… si potevano vedere le fotografie, a colori e a tutta pagina: i coloni ariani con gli occhi azzurri e i capelli biondi che adesso laboriosamente dissodavano, aravano e coltivavano le terre nell’immenso granaio d’Europa, l’Ucraina. Quelli sì, che avevano l’aria felice. E le loro fattorie e le loro case erano pulite. Non si vedevano più le immagini di polacchi ubriachi, dal cervello ottenebrato, stravaccati su portici cadenti o impegnati a rubacchiare qualche rapa appassita nel mercato del paese. Era solo un retaggio del passato, come le strade malridotte in terra battuta che una volta, nel periodo delle piogge, si trasformavano in un pantano, e dove i carri sprofondavano.

Ma l’Africa. Laggiù si erano semplicemente lasciati trascinare dall’entusiasmo, e c’era da ammirarli, anche se avrebbero fatto meglio ad avere un po’ più di pazienza e ad aspettare, per esempio, che fosse portato a termine il Progetto Terre da Coltivare. Ma laggiù i nazisti avevano mostrato dell’autentico genio, rivelando tutto il loro talento artistico. Il Mediterraneo chiuso, prosciugato, trasformato in terreno coltivabile per mezzo dell’energia atomica… che grande ardimento! Coloro che ne avevano riso c’erano rimasti male, come per esempio certi scettici mercanti di Montgomery Street. Alla resa dei conti si era rivelato quasi un successo… ma in un progetto di quelle dimensioni, “quasi” era una parola che aveva un suono minaccioso. Il ben noto, vigoroso saggio di Rosenberg era stato pubblicato nel 1958; in quell’occasione era stata pronunciata la parola per la prima volta. Per quanto riguarda la Soluzione Finale del Problema Africano, abbiamo quasi raggiunto i nostri obiettivi. Sfortunatamente, però…

Eppure c’erano voluti duecento anni per liberarsi degli aborigeni americani, e la Germania, in Africa, ce l’aveva quasi fatta in quindici anni. Quindi non era il caso di criticare, a rigor di logica. In effetti Childan, di recente, aveva avuto occasione di parlarne a pranzo con alcuni di quei mercanti. Evidentemente si aspettavano dei miracoli, come se i nazisti avessero potuto rimodellare il mondo con la bacchetta magica. No, si trattava di scienza e di tecnologia, e del loro eccezionale talento per il lavoro duro; i tedeschi non smettevano mai di impegnarsi. E quando si assumevano un compito, lo svolgevano bene.

E comunque i voli su Marte avevano distolto l’attenzione del mondo dai problemi africani. Perciò tutto si riduceva a quello che lui aveva detto ai suoi colleghi negozianti; «ciò che i nazisti possiedono, e a noi manca, è… la nobiltà. Bisogna ammirarli per la loro dedizione al lavoro o per la loro efficienza… ma è il sogno, che attira. I voli spaziali prima sulla Luna, poi su Marte; non è quello il più antico desiderio dell’uomo, la più grande speranza di gloria? E poi, dall’altra parte, ci sono i giapponesi. Io li conosco bene; faccio affari con loro, in definitiva, un giorno sì e un giorno no. Sono degli orientali, diciamo la verità. Individui dalla pelle gialla. Noi bianchi dobbiamo inchinarci davanti a loro perché detengono il potere. Ma il nostro sguardo è rivolto alla Germania; in loro vediamo ciò che si può fare laddove il potere lo detengano i bianchi, ed è tutta un’altra cosa.»

«Siamo quasi arrivati al Nippon Times Building, signore,» disse il chink , che ansimava per lo sforzo di risalire la collina. Adesso aveva rallentato.

Childan cercò di immaginare fra sé il cliente del signor Tagomi. Era evidente che si trattava di una persona molto importante; il suo tono al telefono, la sua grande agitazione, gli avevano comunicato l’evidenza del fatto. Gli venne subito in mente l’immagine di uno dei più importanti clienti, anzi acquirenti, che lui stesso aveva, un uomo che aveva contribuito molto a creargli una buona reputazione fra i personaggi d’alto rango che risiedevano nella zona della Baia.

Quattro anni prima non trattava oggetti rari e preziosi come adesso; aveva un negozietto buio dove vendeva libri di seconda mano, sulla Geary; i negozi vicini trattavano mobili usati, o ferramenta, oppure si trattava di lavanderie. Non era una bella zona. Di notte, sul marciapiede, erano frequenti le rapine a mano armata, e si registravano anche casi di violenza carnale, nonostante gli sforzi del Dipartimento di Polizia di San Francisco e addirittura della Kempeitai, la polizia giapponese. Tutte le vetrine dei negozi avevano delle grate metalliche che la sera venivano abbassate per evitare i furti con scasso. Eppure in questo quartiere della città era capitato un anziano ex militare giapponese, il maggiore Ito Humo. Alto, magro, con i capelli bianchi, l’andatura impettita, il maggiore Humo aveva indicato per primo a Childan ciò che avrebbe potuto fare con quel tipo di commercio.

«Sono un collezionista,» aveva spiegato il maggiore Humo. Aveva passato un intero pomeriggio frugando nel negozio in mezzo ai mucchi di vecchie riviste. Con la sua voce dolce gli aveva spiegato qualcosa che sul momento Childan non aveva capito bene; per molti giapponesi ricchi e colti, gli oggetti storici della cultura popolare americana rivestivano lo stesso interesse dei pezzi di antiquariato in genere. Perché avvenisse questo, neanche il maggiore lo sapeva; a lui interessava particolarmente raccogliere i vecchi giornali che trattavano dei bottoni di metallo, e naturalmente anche i bottoni stessi. Una cosa simile alle collezioni di monete o di francobolli; non c’era nessuna spiegazione razionale. E i collezionisti ricchi erano disposti a pagare prezzi altissimi.

«Le farò un esempio,» aveva detto il maggiore. «Lei conosce le figurine chiamate “Gli Orrori della Guerra?”» E aveva guardato Childan con avidità.

Dopo aver frugato nella memoria, alla fine Childan si era ricordato. Quando era ancora un bambino, quelle figurine venivano distribuite insieme alla gomma da masticare. Un centesimo al pezzo. Ne era stata stampata un’intera serie, e ogni carta rappresentava un orrore differente.

«Un mio caro amico,» aveva proseguito il maggiore, «colleziona “Gli Orrori della Guerra”. Ormai gliene manca una sola: L’affondamento del Panay. Ha offerto una cifra piuttosto consistente per quella figurina.»

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