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Philip Dick: La svastica sul sole

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In questo romanzo di fantascienza, considerato uno dei più autentici classici della science fiction americana, Philip K. Dick ci descrive il quadro di come potrebbe essere un mondo in cui il nazismo avesse vinto la guerra mondiale. Parlare di nazismo e delle sue colpe potrebbe sembrare un tema troppo importante e doloroso per farne oggetto di un romanzo di fantascienza, ma Dick, nella Svastica sul sole, ci dimostra come invece la fantascienza possa diventare un modo assai efficace per ritrarre sotto un aspetto nuovo la lucida, razionale follia del nazismo e il tumulto di pensieri confusi e malati che porta con sé e trasmette alle persone ad esso asservite: nel mondo descritto da Dick, l’Asse ha vinto la guerra, l’Italia ha preso le briciole, e l’Africa è stata distrutta in un “esperimento”, Giappone e Germania si sono spartiti il mondo, e il credo della superiorità razziale “Ariana” si è talmente compenetrato nelle altre nazioni da togliere loro ogni volontà. Vincitore del premio Hugo per il miglior romanzo in 1963.

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«Il lancio delle figurine,» aveva detto tutto a un tratto Childan.

«Signore?»

«Noi le lanciavamo in aria. Ogni figurina aveva un diritto e un rovescio.» Allora Childan aveva circa otto anni. «Ciascuno di noi aveva un pacchetto di figurine. Ci mettevamo in due, uno davanti all’altro, e ognuno dei due lasciava cadere una figurina che ricadeva a terra svolazzando. Il bambino la cui figurina atterrava sul diritto, con l’immagine visibile, le vinceva tutte e due.» Com’era piacevole ricordare quei momenti sereni, quei primi giorni felici della sua infanzia.

Dopo avere riflettuto un po’, il maggiore Humo aveva detto: «Ho sentito il mio amico che parlava della sua raccolta, e non mi ha mai accennato a una cosa del genere. Per me non ha idea di come venissero usate veramente queste figurine. »

Alla fine l’amico del maggiore era capitato in negozio per ascoltare dalla viva voce di Childan il resoconto storico. L’uomo, anche lui un ufficiale a riposo dell’Esercito Imperiale, era rimasto affascinato.

«Tappi di bottiglia!» aveva esclamato Childan, senza preavviso.

Il giapponese aveva sbattuto le palpebre, senza capire.

«Noi collezionavamo i tappi delle bottiglie del latte. Da ragazzi. Quei tappi rotondi dove c’era scritto il nome della latteria. Ci devono essere state migliaia di latterie, negli Stati Uniti. Ognuna aveva un tappo diverso.»

Gli occhi dell’ufficiale avevano brillato con un lampo di istintivo interesse. «Lei possiede ancora qualcuna delle sue vecchie collezioni, signore?»

Naturalmente Childan non le possedeva. Ma… probabilmente era ancora possibile procurarsi quei vecchi tappi, ormai dimenticati, risalenti ai tempi prima della guerra, quando il latte veniva distribuito in bottiglie di vetro invece che in cartoni di plastica usa-e-getta.

E così, pian piano, era entrato in quel genere di commercio. Altri avevano aperto negozi simili al suo, sfruttando la passione sempre crescente dei giapponesi per le cose americane… ma Childan era sempre stato un gradino più su degli altri.

«Il prezzo della corsa,» disse il chink , distraendolo dalle sue riflessioni, «è un dollaro, signore.» Aveva già scaricato le borse e stava aspettando.

Childan lo pagò distrattamente. Sì, era molto probabile che il cliente del signor Tagomi assomigliasse al maggiore Humo; almeno , pensò Childan con sarcasmo, dal mio punto di vista. Aveva trattato con così tanti giapponesi… ma ancora aveva qualche problema a distinguerli l’uno dall’altro. C’erano quelli bassi e tozzi, con la corporatura da lottatori. Poi quelli che sembravano drogati, e quelli del tipo giardiniere-che-cura-alberi-cespugli-e-fiori… Childan li aveva divisi in categorie. E poi ancora i giovani, che a lui non sembravano affatto giapponesi. Probabilmente il cliente del signor Tagomi era un uomo massiccio, un uomo d’affari, che fumava sigari filippini.

All’improvviso, in piedi davanti al Nippon Times Building, con le borse sul marciapiede accanto a lui, Childan pensò, con un brivido: e se il suo cliente non fosse giapponese ? Tutto ciò che aveva nelle borse era stato scelto nell’ipotesi che si trattasse di un giapponese, tenendo presenti i loro gusti…

Ma l’uomo doveva essere giapponese. Il primo ordine del signor Tagomi era stato un bando originale di reclutamento della Guerra Civile; di certo solo un giapponese poteva essere interessato a roba del genere. Era tipico della loro mania per l’inutile, del fascino legalistico che esercitavano su di loro i documenti, i proclami, le pubblicità. Si ricordava di uno di loro che aveva dedicato il suo tempo libero alla raccolta di avvisi pubblicitari di farmaci pubblicati sui giornali americani del 900.

Ma c’erano altri problemi da affrontare. Problemi immediati. Uomini e donne, tutti ben vestiti, sciamavano attraverso le grandi porte del Nippon Times Building; le loro voci raggiungevano le orecchie di Childan, e lui si mise in movimento. Uno sguardo verso la sommità di quel gigantesco edificio, il più alto di San Francisco. Uffici, finestre, la favolosa architettura dei progettisti giapponesi… e ì giardini circostanti di piante nane sempreverdi, rocce, il paesaggio karesansui, la sabbia che imitava un torrente asciutto serpeggiante in mezzo alle radici, tra le semplici pietre piatte dalla forma irregolare…

Vide un nero che aveva trasportato dei bagagli, e che adesso era libero. Childan lo chiamò subito. «Facchino!»

Il nero trotterellò verso di lui, sorridendo.

«Al ventesimo piano,» disse Childan con il suo tono più duro. «Appartamento B. Presto.» Indicò le borse e poi oltrepassò le porte del palazzo. Naturalmente non si voltò a guardare indietro.

Un attimo dopo si ritrovò accalcato in uno degli ascensori rapidi; intorno a lui c’erano soprattutto giapponesi, i volti puliti che brillavano appena sotto la luce abbagliante dell’ascensore. Poi la spinta verso l’alto, che faceva venire la nausea, il rapido ticchettio dei piani che passavano; Childan chiuse gli occhi, si piantò saldamente sul pavimento e pregò che la corsa finisse subito. Naturalmente il facchino stava trasportando le borse servendosi di un ascensore di servizio. Sarebbe stato irragionevole consentirgli di salire insieme a loro. In effetti, notò Childan aprendo un attimo gli occhi e guardandosi intorno, lui era uno dei pochi bianchi all’interno dell’ascensore.

Quando fu arrivato al ventesimo piano, Childan era già pronto mentalmente a inchinarsi, preparandosi all’incontro negli uffici del signor Tagomi.

CAPITOLO TERZO

Al tramonto, guardando verso l’alto, Juliana Frink vide il puntolino luminoso descrivere un arco velocissimo nel cielo e poi scomparire verso occidente. Una di quelle navi-razzo dei nazisti , si disse. Che vola verso la costa. Carica di pezzi grossi. E io quaggiù. Fece un cenno con la mano, benché naturalmente il razzo fosse già sparito.

Ombre che avanzavano dalle Montagne Rocciose. Vette azzurrine che sfumavano nella notte. Uno stormo di uccelli migratori volava piano lungo una rotta parallela alle montagne. Qua e là qualche automobile cominciava ad accendere i fari; si vedevano le luci gemelle lungo l’autostrada. Una stazione di servizio, anch’essa illuminata. Case.

Da mesi ormai abitava a Canon City, Colorado. Era un’insegnante di judo.

Aveva finito di lavorare e si stava preparando a fare una doccia. Si sentiva stanca. I frequentatori della palestra di Ray avevano occupato tutte le docce, e così lei si era messa ad aspettare fuori, al freddo, assaporando il profumo dell’aria di montagna, e la tranquillità. Tutto ciò che sentiva, adesso, era il debole mormorio che proveniva dal chiosco degli hamburger in fondo alla via, nei pressi dell’imbocco per l’autostrada. C’erano due enormi camion diesel parcheggiati e nell’oscurità si distinguevano le sagome degli autisti che si muovevano, infilandosi le giacche di pelle prima di entrare nel chiosco.

Lei pensò: ma Diesel non si è buttato dal finestrino della sua cabina? Non si è suicidato annegandosi durante una traversata oceanica? Forse dovrei farlo anch’io. Ma lì non c’erano oceani. Però c’è un altro modo. Come in Shakespeare. Uno spillone infilato attraverso la camicia, sul davanti, e addio Frink. La ragazza che non deve temere i vagabondi senza casa che vengono dal deserto. Cammina a testa alta, consapevole delle molte possibilità di cui dispone per paralizzare i nervi dell’avversario incanutito e bavoso. E invece ecco la morte che la raggiunge, per esempio aspirando i gas di scarico lungo il tratto cittadino dell’autostrada, magari attraverso una lunga cannuccia.

Lo aveva imparato dai giapponesi, pensò. Aveva assimilato quel placido atteggiamento nei confronti della morte, insieme alla capacità di far denaro insegnando judo. Come uccidere, come morire. Yang e yin. Ma ormai è acqua passata; questa è la terra dei protestanti.

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