Philip Dick - La svastica sul sole

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La svastica sul sole: краткое содержание, описание и аннотация

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In questo romanzo di fantascienza, considerato uno dei più autentici classici della science fiction americana, Philip K. Dick ci descrive il quadro di come potrebbe essere un mondo in cui il nazismo avesse vinto la guerra mondiale. Parlare di nazismo e delle sue colpe potrebbe sembrare un tema troppo importante e doloroso per farne oggetto di un romanzo di fantascienza, ma Dick, nella Svastica sul sole, ci dimostra come invece la fantascienza possa diventare un modo assai efficace per ritrarre sotto un aspetto nuovo la lucida, razionale follia del nazismo e il tumulto di pensieri confusi e malati che porta con sé e trasmette alle persone ad esso asservite: nel mondo descritto da Dick, l’Asse ha vinto la guerra, l’Italia ha preso le briciole, e l’Africa è stata distrutta in un “esperimento”, Giappone e Germania si sono spartiti il mondo, e il credo della superiorità razziale “Ariana” si è talmente compenetrato nelle altre nazioni da togliere loro ogni volontà.
Vincitore del premio Hugo per il miglior romanzo in 1963.

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Quello che non comprendono è l’ impotenza dell’uomo. Io sono debole, pìccolo, senza la minima importanza per l’universo. L’universo non si accorge di me, e io vivo senza essere visto. Ma perché questo deve essere un male? Non è meglio così? Gli dèi distruggono coloro di cui si accorgono. Se sei piccolo potrai scampare alla gelosia di chi è grande.

Mentre si slacciava la cintura di sicurezza, Baynes disse: «Signor Lotze, non l’ho mai detto a nessuno. Io sono un ebreo. Capisce?»

Lotze lo fissò con aria di commiserazione.

«Lei non se ne sarebbe mai accorto,» riprese Baynes, «perché non ho affatto l’aspetto esteriore di un ebreo; mi sono fatto modificare il naso, ridurre i pori troppo larghi e untuosi, schiarire chimicamente il colore della pelle, alterare la conformazione del cranio. In breve, non è possibile individuarmi dal punto di vista fisico. Posso muovermi, e spesso l’ho fatto, all’interno dei circoli più importanti della società nazista. Nessuno mi scoprirà mai. E…» Fece una pausa, e si avvicinò a Lotze, parlando con voce così bassa che solo l’altro poteva sentirlo. «E ce ne sono altri, come me. Ha sentito? Noi non siamo morti. Viviamo ancora. Continuiamo a esistere senza essere visti.»

Dopo un attimo di esitazione, Lotze farfugliò: «Ma la polizia…»

«Il Dipartimento di Polizia può controllare il mio dossier,» disse Baynes. «Lei può anche denunciarmi, ma io ho amicizie molto in alto. Alcuni sono ariani, altri ebrei che occupano posti di rilievo a Berlino. La sua denuncia verrà archiviata, e subito dopo sarò io a denunciare lei. E per via di queste stesse amicizie, lei si ritroverà in custodia protettiva.» Sorrise, fece un cenno con la testa e percorse il corridoio per raggiungere gli altri passeggeri, allontanandosi da Lotze.

Tutti discesero la rampa e raggiunsero il campo freddo e ventoso. Al termine della discesa Baynes si ritrovò momentaneamente vicino a Lotze.

«In effetti,» disse Baynes, camminandogli accanto, «a me non piace il suo aspetto esteriore, signor Lotze, perciò credo che la denuncerò comunque.» Poi allungò il passo, lasciandosi alle spalle Lotze.

All’altra estremità del campo, molta gente attendeva di fronte all’ingresso dell’aerostazione. Parenti, amici dei passeggeri; chi alzava la mano in segno di saluto, chi cercava con lo sguardo, chi sorrideva, chi aveva un’espressione ansiosa, chi controllava. Un giapponese ben piantato, di mezza età, elegante nel suo cappotto inglese, con pantaloni aderenti e cappello a bombetta, si trovava un po’ più avanti degli altri, con un connazionale più giovane al suo fianco. All’occhiello del cappotto portava il distintivo dell’importante Missione Commerciale del Pacifico del Governo Imperiale. È lui , si rese conto Baynes. Il signor N. Tagomi, venuto ad accogliermi di persona.

Il giapponese fece un passo avanti e lo salutò. «Herr Baynes… buona sera.» Esitante, chinò appena la testa.

«Buona sera, signor Tagomi,» disse Baynes, porgendo la mano. Se la strinsero, poi si inchinarono entrambi. Anche il giapponese più giovane si inchinò, raggiante.

«Fa un po’ freddo, signore, in questo campo così esposto,» disse il signor Tagomi. «Useremo l’elicottero della Missione per tornare in città. Le va bene? O ha bisogno di darsi una rinfrescata, o cose del genere?» Osservò con molta attenzione il volto del signor Baynes.

«Possiamo partire subito,» disse Baynes. «Voglio raggiungere il mio albergo. Quanto al mio bagaglio…»

«Se ne occuperà il signor Kotomichi,» disse Tagomi. «Ci seguirà. Vede, signore, a questo terminal ci vuole quasi un’ora di coda per avere il bagaglio. Più di quanto sia durato il suo viaggio.»

Il signor Kotomichi sorrise amabilmente.

«Va bene,» disse Baynes.

«Signore, ho un regalo per lei,» disse Tagomi.

«Scusi?» fece Baynes.

«Per favorire un suo atteggiamento positivo nei nostri confronti.» Il signor Tagomi infilò una mano nella tasca del cappotto e ne estrasse una scatoletta. «Scelto fra i più raffinati objets d’art disponibili in America.» Gli porse la scatola.

«Bene,» disse Baynes. «Grazie.» Prese la scatola.

«Per tutto il pomeriggio diversi funzionari hanno esaminato ogni possibilità,» disse il signor Tagomi. «Questo è un esemplare autentico dell’antica civiltà americana, ormai in via di estinzione, un oggetto raro che ha ancora il sapore dei bei tempi andati.»

Baynes aprì la scatola. Dentro c’era un orologio da polso di Topolino sopra un’imbottitura di velluto nero.

Il signor Tagomi lo stava prendendo in giro? Baynes alzò gli occhi e fissò il volto teso, ansioso del signor Tagomi. No, non era uno scherzo. «La ringrazio molto,» disse Baynes. «È davvero incredibile.»

«In tutto il mondo sono rimasti pochissimi orologi autentici di Topolino del 1938, forse una decina,» disse il signor Tagomi studiando Baynes, e registrando avidamente ogni reazione, ogni commento positivo. «Nessun collezionista di mia conoscenza ne possiede uno, signore.»

Entrarono nel terminal dell’aerostazione e salirono insieme la rampa.

Alle loro spalle il signor Kotomichi disse: « Harusame ni nuretsutsu yane no temati kana… »

«Cosa significa?» domandò Baynes al signor Tagomi.

«È una vecchia poesia,» rispose il signor Tagomi. «Del Medio Periodo Tokugawa.»

Il signor Kotomichi tradusse: « Mentre cade la pioggia di primavera, se ne imbeve, sopra il tetto, la palla di stracci di un bambino. »

CAPITOLO QUARTO

Mentre Frank Frink osservava il suo ex datore di lavoro che percorreva il corridoio dirigendosi verso la vasta officina della W-M Corporation, pensò fra sé:

la cosa più strana a proposito di Wyndham-Matson è che non sembra il titolare di una fabbrica. Assomiglia piuttosto a un pezzente di qualche zona malfamata, a un ubriacone al quale sia stato fatto un bagno, siano stati dati abiti puliti, sia stato rasato e pettinato, imbottito di vitamine e poi rimesso al mondo con cinque dollari per rifarsi una vita. Il vecchio aveva modi fiacchi, mutevoli, nervosi, addirittura remissivi, come se considerasse tutti come potenziali nemici più forti di lui, con i quali dovesse scodinzolare e trovare un accordo pacifico. «Avranno la meglio su di me,» sembrava esprimere il suo atteggiamento.

Eppure il vecchio W-M era davvero molto potente. Possedeva le quote di controllo di parecchie ditte, società di speculazione, proprietà immobiliari. Oltre alla Wyndham-Matson Corporation.

Seguendo il vecchio, Frink aprì con una spinta la grossa porta metallica dell’officina. Il fragore dei macchinari, che aveva sentito ogni giorno per molto tempo… la vista degli uomini al lavoro, l’aria piena di lampi luminosi, di polvere in sospensione, di movimento. Il vecchio era già entrato. Frink allungò il passo.

«Ehi, signor W-M,» lo chiamò ad alta voce.

Il vecchio si era fermato accanto a Ed McCarthy, il capo officina dalle braccia pelose. Entrambi alzarono gli occhi mentre Frink si dirigeva verso di loro,

Umettandosi nervosamente le labbra, Wyndham-Matson disse: «Mi dispiace, Frank, non posso fare niente per riprenderla. Mi sono già dato da fare e ho assunto un altro per sostituirla, pensando che lei non cambiasse idea… dopo tutto quello che ha detto.» I suoi piccoli occhi tondi scintillavano di quella che Frink riconosceva come un’evasività quasi ereditaria. Ce l’aveva nel sangue.

«Sono venuto a riprendere i miei attrezzi,» disse Frink. «Nient’altro.» Parlò con voce decisa, quasi risentita, e lui ne fu felice.

«Be’, vediamo,» borbottò W-M, che ovviamente non aveva le idee chiare a proposito degli attrezzi di Frink. Poi, rivolto a Ed McCarthy: «Credo che si trovino nel suo reparto, Ed. Magari può pensarci lei, a Frank. Io ho altre cose da fare.» Guardò l’orologio. «Mi ascolti, Ed. Ne riparleremo più tardi; devo scappare.» Diede una pacca sul braccio a Ed e poi trotterellò via, senza guardarsi indietro.

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