Ed McCarthy e Frink rimasero soli.
«Sei venuto per farti riassumere,» disse McCarthy dopo un po’.
«Sì,» ammise Frink.
«Sono molto orgoglioso di quello che hai detto ieri.»
«Anch’io,» disse Frink. «Ma… Cristo, adesso non posso più lavorare da nessuna parte.» Si sentiva sconfitto, impotente. «Lo sai.» I due avevano parlato spesso, in passato, dei loro problemi.
«Non so,» disse McCarthy. «Con quella macchina che produce cavi flessibili tu te la cavi bene come chiunque altro sulla Costa. Ti ho visto tirarne fuori un pezzo in cinque minuti, lucidatura compresa. E partendo dal Cratex grezzo. A parte la saldatura…»
«Non ho mai detto che sapevo saldare,» disse Frink.
«Hai mai pensato di metterti in affari per conto tuo?»
Frink, colto alla sprovvista, esitò. «Per fare che cosa?»
«Gioielli.»
«Via, per l’amor del cielo!»
«Pezzi originali, fatti su misura, non in serie.» McCarthy lo sospinse verso un angolo dell’officina, lontano dal rumore. «Con un paio di migliaia di dollari puoi metter su un laboratorio in un garage o in un piccolo scantinato. Una volta disegnavo orecchini e ciondoli per signore. Ti ricordi… vera arte contemporanea.» Prese un foglio di carta e cominciò a disegnare, con minuziosa, concentrata lentezza.
Frink sbirciò al di sopra della sua spalla e vide il disegno di un braccialetto, un abbozzo con linee molto fluide. «C’è un mercato?» Lui conosceva solo gli oggetti tradizionali del passato, persino qualche antichità. «Nessuno compra oggetti d’arte contemporanea americana; è qualcosa che non esiste più, dalla fine della guerra.»
«Crealo tu, un mercato,» disse McCarthy con una smorfia di rabbia.
«Vuoi dire, venderli personalmente?»
«Portali nei negozi. Come quello… come si chiama? Quello che si trova a Montgomery Street, quel grosso negozio che vende oggetti d’arte molto costosi.»
«Manufatti Artistici Americani,» disse Frink. Lui non entrava mai in negozi così cari ed esclusivi. Pochi americani se lo potevano permettere; solo i giapponesi avevano i soldi per acquistare in luoghi del genere.
«Lo sai che cosa vendono quei negozianti?» gli chiese McCarthy. «Ricavandoci una fortuna? Quelle dannate fibbie d’argento fatte dagli indiani del Nuovo Messico. Robaccia per turisti, tutta uguale. Che viene spacciata per arte indigena.»
Frink fissò a lungo McCarthy. «So che cos’altro vendono,» disse alla fine. «E lo sai anche tu.»
«Sì,» disse McCarthy.
Lo sapevano entrambi… perché vi erano stati coinvolti, e per lungo tempo.
L’attività legalmente dichiarata della W-M Corporation consisteva nella produzione di scale, ringhiere, caminetti e infissi di vario tipo in ferro lavorato per i nuovi palazzi, tutto in serie e su progetti standard. Per un palazzo di quaranta appartamenti lo stesso prodotto veniva fornito in quaranta esemplari uguali. Ufficialmente la W-M era una società metallurgica. Ma svolgeva anche un’altra attività dalla quale ricavava i suoi profitti reali.
Utilizzando un’elaborata varietà di attrezzi, materiali e macchinari, la W-M Corporation sfornava a ritmo costante dei falsi manufatti americani del periodo d’anteguerra. Questi falsi andavano a rifornire, con molta attenzione ma anche con molta abilità, il mercato degli oggetti d’arte, e si mescolavano a quelli autentici che venivano raccolti in tutto il continente. Così come nel commercio di monete o di francobolli, nessuno era in grado di valutare la percentuale di falsi in circolazione. E nessuno — specialmente i negozianti e i collezionisti stessi — era interessato a farlo.
Quando Frink se n’era andato, aveva lasciato sul tavolo da lavoro una Colt del periodo della frontiera ancora da finire; aveva preparato lui stesso lo stampo, aveva fuso il metallo e aveva iniziato la levigatura manuale dei pezzi. C’era un mercato illimitato per le piccole armi della Guerra Civile Americana e del periodo della Frontiera; la W-M Corporation era in grado di vendere tutto ciò che Frink riusciva a produrre. Era la sua specialità.
Frink si diresse lentamente verso il suo tavolo da lavoro e prese in mano lo scovolo ancora grezzo e irregolare della pistola. Altri tre giorni e l’arma sarebbe stata completata. Sì , pensò, è stato un buon lavoro. Un esperto si accorgerebbe della differenza… ma i collezionisti giapponesi non erano delle autorità in materia, e non avevano punti di riferimento per poter giudicare.
In effetti, per quanto ne sapeva, ai giapponesi non era mai venuto in mente di domandarsi se i cosiddetti oggetti d’arte storici in vendita sulla costa occidentale fossero realmente originali. Forse un giorno lo avrebbero fatto… allora la bolla sarebbe scoppiata, e il mercato avrebbe subito un tracollo anche per quanto riguardava gli oggetti autentici. Una Legge di Gresham: i falsi avrebbero fissato il prezzo degli originali. E certamente era quello il motivo per cui non si indagava più di tanto; in fondo, tutti erano contenti così. Le fabbriche sparpagliate nelle diverse città producevano i pezzi e facevano lauti guadagni. I grossisti li distribuivano, i negozianti li mettevano in esposizione e li pubblicizzavano. I collezionisti pagavano e si portavano a casa il loro acquisto, tutti contenti, per fare bella figura con i colleghi, gli amici e le signore.
Come per la carta moneta falsa del periodo postbellico, tutto andava bene finché qualcuno non veniva a controllare. Nessuno ne soffriva… fino al momento della resa dei conti. E a quel punto tutti, senza distinzione, sarebbero stati rovinati. Ma nel frattempo nessuno ne parlava, nemmeno coloro che si guadagnavano la vita sfornando i falsi; non si preoccupavano affatto di quello che stavano facendo, concentravano tutta la loro attenzione sui problemi tecnici.
«Da quanto tempo non fai più disegni originali?» domandò McCarthy.
Frink scrollò le spalle. «Anni. Sono in grado di copiare con la massima precisione. Ma…»
«Lo sai che cosa penso? Io penso che tu abbia accettato l’idea nazista che gli ebrei non sanno creare. Che sanno solo imitare e vendere. Uomini mediocri.» Fissò Frink con espressione impietosa.
«Forse,» disse quest’ultimo.
«Provaci. Fa’ qualche disegno originale. Oppure lavora direttamente sul metallo. Prendila come un gioco. Come fanno i bambini.»
«No,» disse Frink.
«Tu non hai fede,» disse McCarthy. «Hai completamente perso la fiducia in te stesso… vero? Peccato, perché io so che puoi farlo.» Si allontanò dal banco da lavoro.
È proprio un peccato , pensò Frink. Però è la verità. È un fatto. Non posso ritrovare la fede o l’entusiasmo con la sola forza di volontà. Semplicemente perché decido di ritrovarli.
Quel McCarthy , pensò, è un capo officina davvero in gamba. Sa come stimolare un uomo, spingendolo a tirar fuori il meglio di se stesso, costringendolo suo malgrado a dare il massimo. È uno che sa comandare; lì per lì aveva quasi convinto anche me. Ma… ormai McCarthy aveva rinunciato; il suo tentativo era fallito.
Peccato che non abbia qui la mia copia dell’oracolo , pensò Frink. Potrei consultarlo su questa faccenda; sottoporre il problema alla sua millenaria saggezza. Poi si ricordò che nella sala d’attesa degli uffici della W-M Corporation c’era una copia dell’ I Ching. Perciò lasciò l’officina, percorse il corridoio e attraversò di corsa gli uffici fino alla sala d’aspetto.
Seduto in una delle sedie di plastica cromata, scrisse la domanda sul retro di una busta. «Devo provare a mettermi nel campo dell’artigianato creativo come mi è stato appena suggerito?» Poi cominciò a lanciare le monete.
L’ultima linea era un sette, e così anche la seconda e poi la terza. Il trigramma di fondo è Ch’ien , si rese conto. Sembrava buono; Ch’ien era il creativo. Poi la linea quattro, un otto. Yin. E la linea cinque, un altro otto, una linea yin. Buon Dio , pensò eccitato, un’altra linea yin e otterrò l’Esagramma Undici, T’ai, la Pace. Un responso molto favorevole. Oppure… le sue mani tremavano mentre agitava le monete. Una linea yang mi darebbe l’Esagramma Ventisei, Ta Ch’u, la Forza domatrice del grande. Entrambi sono responsi favorevoli, e deve essere per forza o l’uno o l’altro. Gettò le tre monete.
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