«Non ti ha mai preoccupato… voglio dire, non hai mai pensato che se il reattore non fosse stato tenuto in funzione, qui, non ci sarebbe nessun bisogno di trovare una risposta…».
«Hai sentito cosa ha detto Sherman. Potrebbero esisterne degli altri. Forse nelle mani del nemico. E allora, cosa accadrebbe?»
«Ma se questo fosse l’ultimo reattore del mondo?»
«Be’, non fa male a nessuno. E poi, Sherman ha detto che se anche fosse così, non avrebbe importanza, perché qualcuno potrebbe riscoprire l’energia atomica e tutto il resto».
Forse no, forse mai. Forse lo dice solo per giustificarsi. Hostetter aveva usato una parola, per definire questo… razionalizzazione. In ogni modo, questo sarebbe accaduto tra molto, molto tempo. Altri cento anni, forse duecento, forse ancora di più. Non sarò vivo, per vedere quel giorno.
Esaù rise:
«La mia donna è veramente un fenomeno».
Stavano chiacchierando, come sempre, durante il lavoro. Len non vedeva molto Amity: e quando la vedeva, i loro rapporti erano freddi. C’era un senso di gelo, tra loro, una specie di reciproco imbarazzo che non facilitava le conversazioni amichevoli. Così domandò a Esaù:
«Perché lo dici?»
«Be’, quando ha saputo di questa faccenda dell’energia atomica, ha avuto una crisi terribile. Si è messa a piangere, ha detto che avrebbe perduto il bambino, ha detto che era orribile. E vuoi sapere una cosa? Adesso ha stabilito che si tratta solo di una grossa bugia, per farle credere che qui sono tutti terribilmente importanti, e dice di averne le prove».
«Quali?»
«Il fatto che tutti sanno che cosa produce l’energia atomica, e che se ce ne fosse, qui, non rimarrebbe questa gola, ma solo un grosso cratere nero, come raccontava il giudice».
«Oh,» disse Len.
«Be’, lei è contenta così. Così io non discuto. A che servirebbe? In fondo, lei non sa niente di queste cose, non le capisce». Si fregò le mani, e sogghignò. «Spero proprio che mio figlio sia un maschio. Forse io non riuscirò a imparare abbastanza, per far funzionare la grande macchina, ma lui potrà riuscire. Al diavolo, potrebbe essere addirittura lui a trovare la risposta!»
Esaù era affascinato dalla grande macchina, da Clementina. Le gironzolava attorno ogni volta che trovava un minuto libero, rivolgeva interminabili domande a Erdmann e ai tecnici che vi lavoravano, fino a quando Erdmann non cominciò a manifestare qualche segno d’insofferenza, e a cambiare strada, ogni volta che incontrava Esaù. Spesso Len andava con il cugino. Rimaneva immobile, a fissare la faccia scura della cosa, fino a quando non si sentiva pervadere da un senso d’inquietudine, di nervosismo, come se fosse stato al capezzale di un dormiente che si fingesse tale, ma che in realtà lo osservasse a occhi chiusi. E pensava: Non è veramente un cervello, non pensa realmente, è solo un nome che le hanno dato, e le cose che conosce, e i calcoli che può fare, sono soltanto imitazioni del pensiero. Ma durante le ore notturne una creatura lo perseguitava, una creatura con un grande cuore pulsante di fuoco infernale, e un cervello grande come il fienile di papà.
Nel complesso, però, lavorava sodo per adattarsi, e ci riusciva bene. Ma c’erano altre ore, ore di veglia, durante le quali un’altra creatura lo perseguitava, e gli lasciava ben poca pace. E questa era una creatura umana, e non un incubo. Era una ragazza di nome Joan.
Tre gruppi diversi di stranieri vennero a Fall Creek prima che cominciasse a nevicare, si trattennero brevemente per vendere le loro merci e acquistare ciò che Fall Creek aveva da offrire, e ripartirono. Due gruppi di questi stranieri erano costituiti da piccole bande di uomini bruni e robusti, che seguivano le mandrie selvagge, cacciatori e domatori di cavalli, e offrivano puledri da poco domati in cambio di farina, zucchero, e acquavite di grano. Il terzo e ultimo gruppo era composto da Nuovi Ismaeliti. Erano venticinque, e non erano mercanti, e vennero a reclamare polvere e pallottole come dono per gli unti del Signore. Non si trattennero la notte a Fall Creek, né oltrepassarono la periferia del paese, come se avessero avuto paura di rimanerne contaminati, ma quando Sherman mandò loro quanto avevano domandato, essi cominciarono a cantare e a pregare, agitando le braccia e gridando Alleluia. Metà della popolazione di Fall Creek era uscita per vederli, e anche Len era là, in compagnia di Joan Wepplo.
«Tra poco uno di loro si metterà a predicare,» disse Joan. «È quello che tutti aspettano».
«Ne ho sentite anche troppe di prediche,» borbottò Len. Ma rimase là. Il vento era gelido, soffiava nella gola proveniente dai grandi campi di neve delle vette più alte. Tutti indossavano giacconi di pelle di vacca o di cavallo, ma i Nuovi Ismaeliti non avevano altro che i loro stracci e le loro pelli di capra che sbattevano al vento intorno alle gambe nude. Apparentemente, non si curavano del freddo.
«Malgrado la loro resistenza, d’inverno soffrono terribilmente,» disse Joan. «Muoiono di fame, e di congelamento. I nostri uomini trovano i loro cadaveri a primavera, a volte un’intera banda, compresi i bambini». Li fissò con occhi freddi e pieni di disprezzo. «Dovrebbero dare almeno ai bambini la possibilità di sopravvivere. Dovrebbero lasciarli crescere abbastanza, affinché possano decidere se morire o no per il freddo, e per la fame».
I bambini, ossuti e lividi dal freddo, battevano i piedi e urlavano e scuotevano i capelli scarmigliati. Non sarebbero mai stati capaci di prendere una decisione, neppure se fossero diventati adulti. L’abitudine sarebbe stata troppo forte, l’inizio della loro vita avrebbe condizionato troppo pesantemente il loro modo, non di pensare, ma di esistere. Len disse:
«Penso che non possano permetterselo, come non se lo possono permettere né la vostra gente, né la mia».
Un uomo uscì dal gruppo e cominciò a predicare. Aveva i capelli e la barba di un grigio sporco, ma Len lo giudicò meno vecchio di quanto sembrasse. I Nuovi Ismaeliti non diventavano mai molto vecchi. L’uomo vestiva di pelli di capra, sporche e unte, e le ossa del torace sporgevano come una gabbia per uccelli. Scosse i pugni alla gente di Fall Creek, e gridò:
«Pentitevi, pentitevi, perché il Regno di Dio è vicino! Voi che vivete per la carne e i peccati della carne, sì, voi!, la vostra fine è vicina. Il Signore ha parlato con le fiamme e il tuono, la terra si è aperta e ha inghiottito l’ingiusto, e qualcuno ha detto: ’Questo è tutto, Egli ci ha punito, e ora siamo perdonati, ora possiamo dimenticare.’ Ma io vi dico che Dio nella Sua misericordia vi ha dato soltanto un poco di tempo, e che il tempo è quasi trascorso, e voi non vi siete pentiti! E cosa direte quando i cieli si apriranno, e Dio verrà a giudicare il mondo? Come piangerete implorando e supplicando misericordia, e a che cosa vi serviranno i lussi e le vanità di cui vi circondate, allora? Saranno fascine per alimentare le fiamme dell’inferno! Fuoco e tenebra e stridore di denti, e sofferenza e dannazione eterna, se non vi pentirete e cospargendovi il capo di cenere non farete penitenza per i vostri peccati!»
Il vento affievoliva le sue parole e le soffiava via, portandole lontano, pentitevi, pentitevi, come un’eco che svaniva in fondo alla gola, come se il pentimento fosse ormai una speranza perduta. E Len pensò, Cosa accadrebbe, se lui sapesse, se corressi verso di lui gridando quello che c’è nella gola, a meno di mezzo miglio da lui? A che gli servirebbero, allora, le sue pelli di capra, e tutti i massacri commessi in nome della fede?
Vattene. Vattene, vecchio pazzo, e smetti di urlare.
Se ne andò, infine, pensando apparentemente di avere compensato a sufficienza il dono ricevuto. Raggiunse il suo gruppo, e tutti si allontanarono sulla tortuosa strada del passo. Il vento era aumentato, e sferzava crudelmente le rocce, e ululava gelido, e i Nuovi Ismaeliti si piegavano per la violenza della bufera e per la ripida ascesa, con i capelli sbattuti qua e là, e gli stracci che li coprivano sbattuti anch’essi dal vento. Len rabbrividì, involontariamente.
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