È vero? pensò Len. O è il suo modo di metterci alla prova, per vedere se noi possiamo vincere la paura, se potremo mai imparare a vivere qui?
«Andate pure, ora,» disse Sherman. «Jim vi sta aspettando».
E così uscirono, incamminandosi nel mattino limpido per la strada polverosa, attraverso il pendio e le rocce franate, verso Bartorstown. E al cancello di sicurezza si fermarono, esitando, ciascuno aspettando che fosse l’altro ad aprire, e Len disse:
«Credevo che non avessi paura».
«Infatti. Solo che… oh, accidenti, tutti gli altri lavorano intorno a esso, e stanno bene. Andiamo».
Infilò rabbiosamente la chiave nella serratura, aprì, e varcò la soglia. E Len chiuse con cura il cancello, pensando, Ora io sono rinchiuso con lui, il fuoco che cadde dal cielo sul mondo della nonna.
Seguì Esaù, lungo la galleria, e attraverso la porta interna, oltre la camera di controllo dalla quale il giovane Jones li salutò con un cenno. E lui non ha paura? No, lui è come Ed Hostetter, non gli è mai stato insegnato ad avere paura. Ed è vivo, sano, tranquillo. Dio non lo ha folgorato. Dio non ha colpito con le Sue folgori nessuno di loro. Ha lasciato sopravvivere Bartorstown. Non è questa una prova, non indica, questo, che è giusto, che la risposta che essi tentano di trovare è la risposta giusta?
Ma le vie del Signore sono infinite, e sfuggono alla nostra comprensione, e al malvagio viene sempre concesso il suo giorno sulla terra…
«Cosa diavolo stai pensando?» domandò Esaù. «Dormi? Avanti, andiamo».
C’erano delle goccioline di sudore sulla fronte di Esaù, e le sue labbra tremavano. Scesero di nuovo le scale, e i gradini metallici risuonarono cupamente sotto i loro piedi, oltrepassarono il livello nel quale si trovava il grande calcolatore, giù, giù, verso i gradini più bassi, e poi l’ultimo gradino, e poi via dalla scala, avanti, nella grande, spaziosa caverna pulsante di energia che faceva vibrare l’aria e la roccia e la carne, davanti ai generatori e alle turbine, ed era là, il muro di cemento, il volto vacuo e fisso. E i peccati dei nostri padri sono ancora con noi, o se non i loro peccati, le loro follie, e non avrebbero mai, mai dovuto…
Ma l’avevano fatto.
Parlarono con Jim Sidney. Lui dovette chiamarli due volte, prima di farsi sentire, ma era la prima volta, ed egli fu paziente. E Len lo seguì verso la grande massa dell’impianto a vapore, sentendosi minuscolo e insignificante in mezzo a quell’immane potenza. Strinse i denti, e gridò silenziosamente, dentro di sé, È solo perché ho paura che provo questo, e supererò il momento, come ha detto Sherman. Gli altri non hanno paura. Sono uomini, come tutti gli altri, bravi uomini che credono di agire bene, che fanno quello che il governo disse loro di fare. Imparerò. La nonna avrebbe voluto questo da me. Me l’ha detto: non avere mai paura di conoscere, e io non avrò paura.
Non avrò paura. Diventerò una parte di tutto questo, contribuirò a liberare il mondo dalla paura. Devo credere, perché adesso sono qui, e non c’è altro che io possa fare.
No, non così. Devo credere perché è giusto. Imparerò a capire che è giusto. Ed Hostetter mi aiuterà, perché io posso fidarmi di lui, e lui dice che questo è giusto.
E Len si mise al lavoro, al fianco di Esaù, all’impianto a vapore, e per tutto il resto della giornata non guardò il muro del reattore. Ma poteva sentirlo. Poteva sentirlo nella carne e nelle ossa e nel formicolare del suo sangue, e lo sentiva ancora quando ritornò a Fall Creek e si mise a dormire nel proprio letto. E lo sognò quando riuscì infine ad addormentarsi.
Ma non c’era via di scampo. Ritornò al lavoro, il giorno dopo, e il giorno dopo ancora, e regolarmente nei giorni che seguirono, salvo la domenica, quando andava in chiesa e faceva lunghe passeggiate al pomeriggio insieme a Joan Wepplo. Andare in chiesa era rassicurante, per lui. Era un vero conforto ascoltare dal pulpito che Dio benediceva i loro sforzi, e che essi dovevano solo mantenersi fermi e pazienti e non perdersi d’animo. Questo lo aiutava a pensare che quello che faceva fosse davvero giusto. E il trattamento di Sherman pareva funzionare, in un certo senso. Ogni giorno il terrore di essere vicino a quel muro spaventoso diminuiva, forse perché i nervi eccitati di continuo diventavano insensibili. Riuscì a guardare i nervi di cemento, allora, e a pensare con calma a quello che c’era dietro. Riuscì a imparare qualcosa sugli strumenti che si trovavano su di essa, gli strumenti che misuravano l’energia che veniva prodotta là dentro, e poté apprendere qualche elemento superficiale, da profano, sulla natura di quell’energia, e sul modo in cui funzionava, e gli fu spiegato anche perché, in quella forma, poteva essere così facilmente controllata. Poteva andare avanti così per diversi giorni, a volte, ridendo e chiacchierando con Esaù, scherzando su quello che avrebbero pensato a Piper’s Run se li avessero visti in quel momento… il signor Nordholt, il maestro di scuola, che credeva di sapere tante cose, e impartiva così parsimoniosamente la sua conoscenza per timore di corrompere l’animo dei giovani, e gli altri anziani della città, capaci di frustare a sangue un ragazzo per avere posto delle domande, e, be’, sì, anche papà e lo zio David, la cui risposta era la cinghia. No, questo non valeva per papà, e Len sapeva benissimo che cosa avrebbe detto papà, e non voleva pensarci, era un argomento che preferiva sorvolare. Così rivolgeva i suoi pensieri al giudice Taylor, che aveva fatto uccidere un uomo e bruciare un paese per paura che esso potesse diventare un giorno una città, e pensava, vendicativo, che gli sarebbe piaciuto dire al giudice Taylor che cosa c’era sotto le rocce di Bartorstown, e osservare l’espressione del suo viso, allora.
E io non ho paura, pensava. Avevo paura, sì, ma adesso è passata. È soltanto una forza naturale, come tutte le altre forze della natura. Non c’è nulla di malvagio, in questa energia atomica, non più di quanto possa esserci malvagità in un coltello, o in una sacca di polvere da sparo. Il male sta soltanto nel modo in cui la forza viene usata, e noi faremo in modo che nessuno possa più fare del male con essa, mai più. Noi. Noi, uomini di Bartorstown. E, oh, Dio, le notti di freddo e di brividi lungo le rive dei torrenti nebbiosi, i giorni di caldo soffocante e di zanzare e moscerini a stormi, e di fame, gli inverni passati in strane comunità, e tutti i giorni e le notti e gli anni durante i quali abbiamo sognato di diventare uomini di Bartorstown!
Ma il sogno era diverso, allora. Era tutto lucente e colorato e splendido, come lo aveva raccontato la nonna, e non c’erano tenebre in esso.
Continuava così per giorni e giorni, e a un certo punto pensava: Ora finalmente ho vinto le mie paure.
E poi si svegliava urlando nel cuore della notte, e Hostetter lo scuoteva, per strapparlo dall’incubo.
«Cosa stavi sognando?» domandava Hostetter.
«Non so. Un incubo, penso». Si alzava e andava a prendere un bicchiere d’acqua, e aspettava che il sudore e il tremito si quietassero. E poi domandava, con noncuranza, «Ho detto qualcosa?»
«No, almeno non ho sentito niente, all’infuori del grido. Ti lamentavi».
Ma poi si accorgeva che Hostetter lo fissava, con espressione intenta e pensierosa, e si domandava se lui non sapesse benissimo la natura del suo incubo.
Le paure di Esaù erano acque meno profonde di quelle nelle quali navigava lo spirito di Len. Si trattava, quasi esclusivamente, di paura fisica, e quando egli fu pienamente convinto che nessuna forza invisibile avrebbe bruciato il suo corpo e le sue ossa, diventò molto indifferente, quasi noncurante, e parve considerare il reattore come una sua proprietà, qualcosa che lui stesso aveva costruito. Len gli domandava:
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