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Hal Clement: Strisciava sulla sabbia

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Hal Clement Strisciava sulla sabbia

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HAL CLEMENT

STRISCIAVA SULLA SABBIA

(Needle, 1949)

1

Anche sulla Terra le ombre servono ottimamente a chi cerca un nascondiglio. Certo, dove attorno alle ombre c’è molta luce, le zone scure saltano subito all’occhio e il riverbero penetra, ma se la luce intorno non è molto forte, chi intenda nascondersi può mettersi nell’ombra diventando pressoché invisibile.

Oltre la Terra, dove non esiste aria a diffondere la luce, sarebbe stato ancora meglio. L’ombra del pianeta è un cono di buio lungo un milione e mezzo di chilometri che parte dal sole, del tutto indistinguibile, circondato com’è dal nero dello spazio, e adatto quindi a offrire una invisibilità perfetta, perché l’unica luce che penetra il cono d’ombra è quella delle stelle, il cui debole riflesso luminoso può forare l’oscurità grazie all’involucro d’aria che circonda il pianeta.

Il Cacciatore sapeva di trovarsi nell’ombra di un mondo, per quanto ignorasse l’esistenza della Terra. L’aveva capito quando aveva visto davanti a sé il disco scuro orlato di scarlatto. Sulle prime aveva pensato che da quel momento solo gli strumenti avrebbero potuto rivelare la presenza dell’astronave inseguita. Poi si era reso conto che l’altra nave restava visibile anche a occhio nudo, e la sensazione d’allarme, che era affiorata sino agli strati esterni della sua mente, tornò in profondità.

Non aveva capito, però, perché il fuggiasco avesse diminuito la velocità, ma forse l’altro aveva sperato che il Cacciatore, mantenendo alta la sua, lo superasse uscendo così dal raggio d’azione dei rivelatori. Ma questo non era successo, e il Cacciatore si era aspettato uria ripresa di velocità, invece l’altra astronave proseguiva in decelerazione. Per di più il fuggitivo si era messo tra lui e il pianeta, rendendo pericolosa una manovra di accostamento rapido. Il Cacciatore stava pensando che probabilmente da un momento all’altro entrambi avrebbero dovuto compiere un’inversione di rotta, tornando da dove erano venuti, quando un lampo di luce rossa l’avvertì che l’altro era penetrato nell’atmosfera del pianeta. Pianeta più piccolo e più vicino di quanto avrebbe creduto.

La vista di quel bagliore fu sufficiente. Nel tentativo di deviare dalla rotta che lo portava diritto contro il pianeta, il Cacciatore impegnò la massima quantità di erg che i suoi generatori potevano sopportare e contemporaneamente trasferì gran parte del suo corpo nella cabina di pilotaggio, per fare da protezione gelatinosa attorno al perit. Ebbe appena il tempo di chiedersi perché mai la creatura che lo precedeva nello spazio avesse voluto rischiare astronave ed equipaggio concludendo la fuga con un disastro sicuro, disastro preceduto dai pericoli impliciti nell’attraversare in quel modo l’atmosfera di un mondo. Comunque tenne gli occhi fissi sugli strumenti che gli avrebbero detto dove andava a finire il fuggitivo, e fece bene perché il luccicante cilindro scomparve improvvisamente nella nuvola di vapore che avvolgeva la superficie del pianeta. Un secondo più tardi l’astronave del Cacciatore sprofondò a sua volta nel medesimo elemento, e nello stesso momento il corso rettilineo dell’astronave si trasformò in un moto ondeggiante, decisamente sgradevole. Doveva essere saltata via una delle pinne direzionali, probabilmente danneggiata dal calore provocato dall’attrito con l’atmosfera, ma non era il momento di preoccuparsene. Notò che l’altra astronave si era fermata di colpo, come se avesse urtato contro un muro, poi aveva ripreso a scendere, ma più lentamente, e si rese conto che fra pochissimi istanti anche lui sarebbe finito contro lo stesso ostacolo, se questo era disposto orizzontalmente.

Lo era. L’astronave del Cacciatore, continuando a ondeggiare benché lui avesse provveduto a ritrarre le altre pinne, cadde di pancia sull’acqua, e sotto la forza dell’impatto si aprì a metà per il lungo, come il guscio di una noce. Quasi tutta l’energia cinetica della macchina si disperse nell’urto, ma l’astronave non si fermò. Ondeggiando dolcemente, alcuni minuti più tardi lo scafo si posò su quello che il Cacciatore ritenne essere il fondo di un lago, o di un mare.

Unica consolazione: l’altro doveva trovarsi negli stessi guai. Anche se l’astronave inseguita aveva colpito l’acqua con la testa anziché con la pancia come aveva fatto lui, gli effetti di una collisione a quella velocità non potevano essere molto diversi, e lo scafo del fuggitivo era certamente ormai inutilizzabile, come il suo, anche se i danni reali non ammontavano alle stesse proporzioni.

Tornò a occuparsi della propria situazione. Saggiò cautamente lo spazio attorno a sé e scoprì di non trovarsi più in gran parte nella cabina di comando. Anzi: non esisteva più la cabina di comando. Il locale cilindrico, lungo circa sessanta centimetri e con un diametro di circa venticinque, adesso era uno spazio informe fra le due valve dentellate che avevano costituito lo scafo. Le varie sezioni, tagliate a metà, risultavano appiattite e compresse in uno spazio di pochi centimetri. La paratia all’altra estremità del locale era spezzata e contorta. Il perit , ovviamente, era morto. Non solo era rimasto schiacciato dalla paratia crollata, ma il corpo semiliquido del Cacciatore gli aveva trasmesso l’urto dell’impatto fin nell’intimo di ogni cellula (così come ogni molecola dell’acqua contenuta in un recipiente riceve moltiplicato l’urto di un proiettile che colpisce il recipiente), e la maggior parte dei suoi organi interni si era sfasciata. Il Cacciatore si ritrasse dalla piccola creatura. Però non ne espulse i resti: per quanto l’idea fosse sgradevole, potevano servirgli come cibo, più tardi. L’atteggiamento del Cacciatore verso il piccolo animale era molto simile a quello di un uomo verso il proprio cane. Il perit però, con le sue mani delicate che il Cacciatore gli aveva insegnato a usare a comando come un elefante usa la proboscide agli ordini di un uomo, era assai più utile di un cane.

Proseguì nell’esplorazione estendendo uno dei suoi pseudopodi di carne gelatinosa. Sapeva già che il relitto giaceva in acque salate, ma non aveva nessuna idea sulla profondità di quell’acqua, per quanto avesse capito che non era molto profonda. Sul suo pianeta avrebbe potuto fare un rapido calcolo basandosi sulla pressione, ma la pressione dipende tanto dalla profondità dell’acqua quanto dal suo peso, e lui, prima del disastro, non aveva avuto modo di calcolare la gravità di quel pianeta.

Era tutto buio intorno allo scafo. Modellò un occhio nei propri tessuti, dato che gli occhi del perit non servivano più, ma non capì gran che di quello che lo circondava. Di una cosa però si rese conto di colpo: la pressione dell’acqua attorno a lui non era costante. Aumentava e diminuiva con una certa regolarità. Inoltre la sua carne sensibilissima riceveva onde ad alta frequenza che lui interpretò come suoni. Dopo aver ascoltato attentamente, capì di trovarsi relativamente vicino alla superficie di uno specchio d’acqua, e che nell’aria era in corso una tempesta. Durante la caduta catastrofica attraverso l’atmosfera del pianeta non si era accorto che ci fossero in corso disturbi atmosferici, ma questo non significava granché: il suo passaggio attraverso i vari strati dell’aria era stato troppo rapido perché la sua attenzione venisse colpita dalla presenza di un vento anche sensibile.

Infilando l’altro pseudopodo nel fango che circondava il relitto, il Cacciatore scoprì di non essere precipitato su un mondo inabitato. Nell’acqua c’era sufficiente ossigeno per sopperire alle sue necessità, e di conseguenza doveva essercene anche nell’atmosfera. Comunque la certezza che la vita esistesse era ancora meglio della semplice teoria che lì la vita era possibile. Fu fortunato. Il fango si rivelò ricco di piccoli molluschi bivalve che si rivelarono commestibili.

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