— Avete un pezzo di filo legato al braccio… perché?
— Stavo misurando la lenza, e mi si è ingarbugliata intorno al gomito.
Convery fissò attentamente Breton. Aveva la faccia cosparsa di graffi ed ecchimosi non certo recenti, ma pareva dotato di una forma che prima non aveva mai posseduto. E nuovo era anche l’atteggiamento reciproco dei due Breton: era come se fossero una persona sola. La professione di Convery non gli aveva consentito spesso di assistere a scene d’amore, ma, quando ne vedeva una, sapeva riconoscerla. Anche questa era una novità provocata dagli avvenimenti degli ultimi giorni. Un’altra parte del mistero.
— Vi ho dato tanti fastidi per niente — disse Kate Breton. — Volete fermarvi a bere qualcosa con noi?
Convery scosse la testa. Aveva perso, e lo sapeva. — Vedo che preferite restare soli. — Sapendo che la sua ironia era sprecata, si voltò per andarsene; poi si accorse di tenere in mano la scarpa, e la porse a John.
— Questo mocassino è vostro — disse. — L’ho trovato in riva al lago. Immagino che non vi siate neppure accorto d’averlo perso.
— Proprio così — rispose Breton, sorridendo con aria di scusa. — Vi ho detto che sono disordinato.
— Già, immaginavo che avreste risposto così. Buonanotte.
Convery risalì a passi stanchi la scala di legno e uscì nella notte fredda. Lo sforzo di assimilare tutta la messe di nuovi indizi che aveva raccolto gli fece corrugare le sopracciglia. In cielo, le stelle continuavano a tracciare scie luminose in tutte le direzioni, ma lui non le guardò.
Nello schedario della sua mente erano classificate come “Non inerenti al problema".
Convery si avviò lentamente verso la sua macchina. E, mentre camminava, la sua mano destra, da sola, incominciò a torcersi e a piegarsi… come in attesa della voce magica che non sarebbe mai venuta.
Jack Breton ebbe l’impressione che qualcuno avesse spento la luce della cantina. Rimase fermo, al buio, trattenendo il fiato per il dolore al polso, e con le orecchie pronte a captare qualsiasi rumore nella stanza di sopra. Si rilassò dopo qualche secondo. Il capanno era freddo e vuoto nell’universo del Tempo A, e non era di proprietà dei Breton. “E se” pensò spaventato “fosse in vendita, chiuso e sbarrato dall’esterno?”
Breton fece un passo e gli mancarono le ginocchia. Cadde urtando contro quella che gli parve una grossa cassa, e finì disteso sul pavimento polveroso. Quando cercò di rialzarsi, le braccia e le gambe gli tremavano talmente che vi rinunciò, per il momento, e si lasciò ricadere bocconi.
Al secondo tentativo fu più prudente, e si aggrappò alla cassa con tutte e due le mani, sollevandosi pian piano.
Quando finalmente fu di nuovo in piedi, si appoggiò al legno ruvido della cassa. Ansimava pesantemente.
“Kate!”
Si guardò intorno senza riuscire a vedere nulla, con la certezza struggente che lei era proprio lì in quella cantina, separata solo dalle barriere intangibili della probabilità. E ci sarebbe stato anche John Breton. E l’avrebbe abbracciata.
Jack Breton s’irrigidì, per vincere il dolore che sarebbe sopravvenuto. Ma, miracolosamente, il dolore non venne. Invece sentì il sapore puro, pulito, della riconciliazione. Aveva commesso un errore una volta, ma lo aveva corretto. Aveva rimesso tutto a posto.
Si avviò a tentoni verso la scala. Camminando lentamente come un vecchio, arrivò di sopra. La porta era aperta. Attraverso le finestre si vedeva il cielo striato da luci spettrali. Anche l’universo del Tempo A aveva la sua pioggia di meteoriti, ma adesso che lui aveva ristabilito l’equilibrio cosmico, tutto sarebbe tornato normale.
Prima di chiudersi la porta alle spalle, Breton si voltò a fissare il buio silenzioso della cantina vuota.
— Scusatemi — disse, sentendosi sciocco, ma incapace di impedire alle labbra di formulare le parole — capisco che voi due preferite stare soli.
Ed ebbe l’illogica convinzione che Kate e John avessero ricevuto il suo messaggio.
FINE