Bob Shaw - Cronomoto

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Cronomoto: краткое содержание, описание и аннотация

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È uno dei temi più affascinanti della fantascienza: che cosa accadrebbe se potessimo fisicamente cambiare il tempo, creando nuovi mondi con un semplice gesto? Jack Breton, il protagonista di questo romanzo pieno di suspence e di sorprese, da nove anni non fa che pensare a quei pochi, fondamentali momenti che hanno preceduto la morte di sua moglie. Per correggere il suo errore deve riscrivere il passato. Ma con quali conseguenze?

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Man mano che procedeva verso nord, la sua fiducia in se stesso aumentava. C’era stato un momento in cui aveva temuto che le cose si mettessero male, nel Tempo B, come se questo mondo volesse ribellarsi al suo creatore, ma la colpa era stata sua. Non aveva pensato che in nove anni di vita trascorsi da John e Kate lontano da lui, potessero essere maturati circostanze e stati d’animo da cui lui era escluso e che non aveva potuto prevedere…

Il cielo cupo fu improvvisamente illuminato davanti a lui da un vividissimo bagliore.

Un sole in miniatura tracciò un arco, dall’alto in basso, seguito da una scia di fuoco, e poi scomparve dietro un’altura incoronata di piante, a meno di un miglio di distanza. La luce abbagliante dell’esplosione fece stagliare i profili degli alberi, e poi un fragore tremendo inghiottì la macchina paralizzando Breton con una paura primordiale. La prima esplosione fu seguita da una serie di rombi che andarono diminuendo fino ad assumere il tono di grugniti e borbottii olimpici, che riempirono tutta l’atmosfera circostante.

Breton si ritrovò madido di sudore. Passarono alcuni secondi prima che tornasse padrone di sé, nel silenzio mortale che era seguito ai rombi. E allora, la sua capacità di ragionare di uomo del Ventesimo secolo riuscì a far capolino e a spiegargli che aveva assistito alla caduta di una meteorite. Imprecò tra i denti, e strinse più forte il volante tra le mani.

“Il cielo” pensò a un tratto, con una profonda frustrazione “mi è nemico.”

Raggiunse la cresta dell’altura, e, in lontananza, sulla sinistra, vide dei frammenti di fuoco color topazio che si levavano dal pendio erboso. Nel giro di pochi minuti tutta la zona sarebbe stata meta di una gran folla di curiosi. Breton conosceva la mentalità del cittadino medio del Montana: anche un fuocherello di sterpi era sufficiente per trascinarlo fuori dalla sua misera casa, ben felice di saper dove andare con la sua bella macchina nuova che, per quanto grande e veloce, non aveva le virtù di un tappeto magico nella vastità delle praterie.

Un avvenimento come la caduta di una meteorite avrebbe fatto accorrere gente da centinaia di miglia, e anche più, appena la radio avesse trasmesso la notizia. Questo voleva dire che il viaggio di ritorno su quella strada, con un morto nel portabagagli, sarebbe stato lento e difficoltoso, in mezzo a una marea di auto. C’era anche la probabilità che intervenisse la polizia istituendo posti di controllo. Breton ebbe una visione di uomini dal viso duro, in divisa blu, che aprivano il portabagagli, mentre era imbottigliato nel traffico, come aveva fatto il giorno prima il tenente Convery.

La prospettiva lo spaventò, e tuttavia pensava che, in un certo senso, quella meteorite gli aveva fatto un favore. Con un traffico intenso, sarebbe stato difficile infatti che qualcuno notasse i movimenti di una singola macchina. Accelerò un poco, per portarsi fuori dalla zona prima che cominciasse ad arrivar gente.

Il capanno sarebbe stato immerso nell’oscurità, quando vi giunse, se non fosse stato per la luce spettrale dell’aurora a nord e per la continua caduta di meteoriti che costellavano il cielo di frammenti simili a diamanti.

Breton scese dall’auto e si avviò a rapidi passi verso il capanno, tenendo una mano sulla tasca della giacca per evitare che la pistola gli sbattesse contro l’anca.

In quella luce mutevole, innaturale, le linee solide del capanno da pesca sembravano contrarsi, vacillare, espandersi come plasma gelatinoso. Una volta di più, Breton rabbrividì di freddo e si sentì mortalmente stanco. Aprì la porta ed entrò nel buio fitto: un impulso improvviso l’indusse a estrarre la pistola. Giunto in cima alla scala della cantina, esitò un attimo prima d’accendere la luce.

Il bagliore dapprima tremulo, e poi fisso, del tubo fluorescente illuminò John Breton disteso su un fianco in mezzo alla stanza. Gli abiti gualciti, sporchi e impolverati lo facevano sembrare morto, ma gli occhi erano vivi, intelligenti.

— Ho cercato di liberarmi — disse con naturalezza, mentre Jack scendeva i gradini — e a momenti mi tagliavo le mani.

Si contorse, per riuscire a mostrare i polsi, ma poi i suoi occhi si fissarono sulla pistola impugnata da Jack.

— Di già? — C’era più tristezza che paura, nella sua voce.

Jack si accorse di tenere la pistola seminascosta, e, con uno sforzo, la mise in vista.

— Hai intenzione di discutere?

— Sarebbe inutile! Che cosa otterrei? — John pareva convinto di godere di un qualche oscuro vantaggio psicologico.

— Bene. — Jack tolse la sicura e puntò l’arma. Non c’era nulla da guadagnare a perdere tempo.

— Ah, no! — esclamò John con un tremito nella voce. — Hai davvero intenzione di sparare?

— Devo. Mi spiace.

— Anche a me spiace. Per noi tutti.

— Riserva la compassione a te tesso.

Jack piegò il dito sul grilletto, ma questo sembrava rigido come un pistone idraulico, e i secondi passavano senza che nulla accadesse. John rimase immobile per un momento, poi la sua decisione di accettare l’inevitabile si frantumò: cominciò a contorcersi cercando di indietreggiare per porre la maggior distanza possibile fra se stesso e la canna della pistola. I suoi piedi slittavano sul cemento, mentre si sforzava di arretrare. Jack avanzò. Aveva passato la pistola nella sinistra e sentiva che il grilletto incominciava a cedere.

D’un tratto, una ventata gelida investì Jack Breton, che si volse e per poco non sparò, in preda al panico. Un oggetto fantomatico, trasparente, stava sospeso a mezz’aria, a pochi metri da lui. Breton fece una smorfia quando riconobbe la ben nota sagoma bilobata.

Un cervello umano.

Mentre guardava, una colonna vertebrale si materializzò sotto il cervello privo di sostanza, seguita da un intrico nebuloso di linee più sottili che andavano diramandosi, finché, nel giro di un secondo, l’oggetto venne a somigliare a un modello tridimensionale, in plastica, del sistema nervoso umano.

Seguì poi una seconda ventata gelida, e Jack Breton si ritrovò poi a fissare, paralizzato, il viso di un altro uomo.

“Anch’io dovevo essere così” pensò Jack Breton in quel primo istante di orrore. “Anch’io dovevo essere così, quando andai all’appuntamento sotto i tre olmi…” Un cervello nudo che si materializzava nel buio; terribile, pulsante, repellente, col sistema nervoso che si diramava verso il basso come un fungo in rapida crescita, finché non si ricoprì tutto di carne. Era un aspetto del cronomoto che non aveva mai preso in considerazione. L’arrivo, e…

I particolari a cui stava pensando vennero cancellati da un’improvvisa constatazione densa di significato.

— Metti via quella pistola, Jack.

Lo sconosciuto parlava con voce atona, disumana, ma perentoria. Si avvicinò a Jack Breton e la luce del tubo al neon lo investì in piena faccia. La prima impressione di Breton fu che la Natura avesse commesso un tremendo sbaglio nel fabbricare quel volto… Pareva che avesse un solo occhio, e due bocche!

Anche quando ebbe messo a fuoco tutte le sue facoltà visive e intellettuali dovette ammettere che, in quella faccia, c’era realmente un occhio solo. Al posto del bulbo oculare c’era un’orrenda cavità, e nessun tentativo era stato fatto per mascherarla o rimediare al difetto. La palpebra superiore e quella inferiore si congiungevano in un sorrisetto sardonico che faceva il paio con quello che arcuava le labbra dello sconosciuto.

Breton notò chiazze di capelli grigi sopra il cranio, una pelle molto grassa, e degli abiti trasandati di stile mai visto… Ma, più di tutto, la sua attenzione fu attratta dalla seconda fantomatica bocca.

— Chi… — riuscì a dire a fatica. — Chi sei?

La risposta non venne dallo sconosciuto, ma dal pavimento.

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