Intrappolato nel suo guscio di noia come un cavalluccio marino ancora vivo in un portachiavi di plastica, Breton trovò quasi gradevole lo squillo del telefono. Si alzò e attraversò il soggiorno per andare in anticamera.
— Chi può essere, caro? — chiese Kate Breton, accigliandosi, un po’ seccata per l’interruzione.
Breton passò in rassegna tutta una serie di risposte ironiche che gli erano subito venute in mente, ma alla fine, per riguardo verso gli ospiti, scelse la meno pungente.
— Non riconosco lo squillo — disse con indifferenza, e notò che Kate stringeva le labbra color rosa-gesso. Si sarebbe ricordata di quella frase e ne avrebbe fatto una storia, magari alle tre di mattina, quando lui moriva di sonno.
— E bravo il nostro John, sempre tagliente come un rasoio. — Gordon Palfrey parlava in fretta, con il suo caratteristico tono conciliante, e Miriam Palfrey gli rivolse il suo blando sorriso azteco, guardandolo con occhi che parevano capocchie di spillo. I Palfrey erano i più recenti acquisti di Kate, e la loro presenza in casa procurava solitamente a Breton un irritante bruciore allo stomaco.
— Pronto — disse. — Qui John Breton.
— Ah, ci chiamiamo John, adesso, eh? Una volta eri Jack.
La voce al telefono era tesa e controllata, come se chi parlava stesse dominando una forte emozione: paura, forse, o trionfo.
— Chi parla? — Breton cercò, senza riuscirci, di identificare la voce. Ebbe la sgradevole sensazione che l’apparecchio telefonico fosse come una porta attraverso cui chiunque poteva penetrare direttamente in casa sua. Quando rispondeva a una chiamata, si sentiva in posizione di svantaggio a meno che l’altro non si presentasse; ed era una sensazione spiacevole. — Chi siete?
— Dunque, non lo sai proprio? Molto interessante.
In quelle parole ci fu qualcosa che fece scattare un campanello d’allarme in Breton. — Sentite — disse — o vi presentate, o riattacco.
— Non arrabbiarti, John. Sarò ben felice di farlo. Ho chiamato solo per accertarmi che tu e Kate foste in casa, prima di venire. Adesso appendo.
— Un momento — si affrettò a dire Breton, accorgendosi di lasciarsi influenzare troppo dallo sconosciuto. — Non mi avete ancora detto cosa volete.
— Mia moglie, naturalmente — rispose amabilmente la voce. — Sono nove anni, quasi, che vivi con mia moglie, e sono venuto a riprendermela.
Uno scatto, poi il telefono prese a ronzare sommessamente nel l’orecchio di Breton che, imprecando tra i denti, depose il ricevitore e rimase indeciso accanto all’apparecchio per qualche secondo.
Doveva essersi trattato di uno scherzo di cattivo gusto, ma da parte di chi? Lui conosceva una sola persona amante delle burle: Carl Tougher, il geologo dell’azienda di consulenza tecnica Breton. Ma quando aveva visto per l’ultima volta il geologo in ufficio, Tougher era preoccupato perché non riusciva a spiegare una discordanza di dati, in un sondaggio vicino a Silverstream, dove eseguivano perforazioni alla ricerca di un terreno adatto a sostenere fondamenta di cemento. Breton non aveva mai visto Carl tanto preoccupato e meno incline a far scherzi, specie poi di quel genere. La conversazione inoltre non aveva senso, il che non era poi così strano, considerando il tipo di mentalità di chi si diverte a telefonare senza scopo alla gente; tuttavia aveva avuto un sottofondo sgradevole. Per esempio, quell’allusione al fatto che lui non si faceva più chiamare Jack. Breton aveva cominciato a servirsi del suo nome di battesimo, e non più del diminutivo, per ragioni di prestigio, quando l’azienda aveva preso a svilupparsi; ma era ormai una cosa vecchia di anni, e, pensò indignato, riguardava solo lui. Malgrado tutto, un cocciuto angolino della sua mente non aveva mai approvato il cambiamento del nome, e adesso aveva l’impressione che lo sconosciuto avesse guardato dentro di lui, individuando quella minuscola ombra, quella specie di tumore del suo senso di colpa.
Breton si soffermò sulla soglia del soggiorno, rendendosi conto che stava reagendo proprio secondo il desiderio dello sconosciuto burlone, continuando cioè a rimuginare sulla cosa, invece di non pensarci più. Passò lo sguardo sui pannelli arancione che tappezzavano l’anticamera, provando un improvviso senso di rammarico per non aver accontentato Kate, quando, un anno prima, aveva espresso il desiderio di traslocare in un appartamento più grande. Quella vecchia casa non era più adatta a lui, e l’avrebbe dovuta lasciare senza rimpianti già da tempo. “Sono nove anni, quasi, che vivi con mia moglie.” Breton corrugò la fronte ricordando quelle parole; l’uomo non aveva certo voluto dire di essere stato sposato in precedenza con Kate, o qualcosa del genere, perché Kate e Breton erano sposati da undici anni. Ma quell’espressione “nove anni” significava qualcosa di specifico, si collegava a un senso d’ansia, come se una parte del subconscio di Breton ne avesse afferrato il senso e ora aspettasse con apprensione la prossima mossa.
— Per amor del cielo! — esclamò Breton, battendosi la mano sulla fronte con aria disgustata. — Sono pazzo quasi quanto lui.
Aprì la porta e rientrò nel soggiorno. Mentre era via, Kate aveva spento quasi tutte le luci, e aveva accostato un tavolino da caffè alla poltrona dov’era seduta Miriam Palfrey. Sul tavolino erano pronti un blocco di carta bianca e una matita, e su questi oggetti le dita tozze e grassocce di Miriam stavano già facendo dei gesti vaghi e fluttuanti. Breton mugugnò tra sé: evidentemente avevano intenzione di fare una seduta. I Palfrey erano tornati di recente da un viaggio di tre mesi in Europa, e, per tutta la serata, non avevano fatto altro che parlarne, tanto da fargli sperare che quella sera non ci sarebbe stata seduta. E proprio questa speranza gli aveva dato la forza di ascoltare educatamente le loro chiacchiere di turisti.
— Chi era al telefono, caro?
— Non lo so. — Breton non aveva voglia di parlarne.
— Avevano sbagliato numero?
— Sì.
Kate lo scrutò sospettosamente. — Ma sei stato via tanto. E mi pareva di sentirti gridare.
— Diciamo allora che il numero era giusto, ma era sbagliata la persona — disse Breton con impazienza.
Gordon Palfrey sbuffò divertito, e negli occhi di Kate l’interesse si tramutò in fredda delusione, come se Breton avesse spento due minuscoli televisori. Ecco un altro argomento per le loro discussioni notturne, quando tutta la gente normale dormiva, e perfino le tende della loro camera respiravano regolarmente alla brezza della notte. “Perché” si domandò con un senso di colpa “offendo Kate davanti ai suoi amici? Ma, se la mettiamo in questo modo, perché lei urta me in continuazione, non dimostrando il minimo interesse per il mio lavoro, e sottoponendomi a un ‘terzo grado’ in pubblico, solo per una stupida telefonata?” Si sedette pesantemente e allungò macchinalmente la destra verso il bicchiere di whisky, mentre si guardava intorno, elargendo ai Palfrey un sorriso benevolo.
Gordon Palfrey stava gingillandosi col quadrato di velluto nero a stelle d’argento che serviva a coprire la faccia di sua moglie nel corso delle sedute, ma aveva voglia di continuare a parlare dell’Europa. Attaccò uno sproloquio senza lasciarsi intimorire dalle occhiate sarcastiche che Breton non risparmiava tutte le volte che sentiva affermazioni tipo: “I francesi hanno un eccellente senso del colore". Tema dello sproloquio era l’arredamento delle ville europee, che rivelavano invariabilmente un gusto superiore a quello dei migliori arredatori americani. Lasciandosi sprofondare nella noia, Breton si dimenò sulla poltrona domandandosi come avrebbe fatto a sopportare ancora quella serata, sapendo per di più che sarebbe dovuto andare in ufficio ad aiutare Carl Tougher a risolvere il problema delle fondamenta da gettare. Con la naturalezza e l’impercettibile mutamento di tono che sono le caratteristiche dello scocciatore nato, Palfrey passò a parlare di un vecchio contadino scozzese che, cieco, tesseva a mano; ma Miriam cominciava a dar segno di quell’irrequietezza che precedeva lo stato di trance.
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