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Bob Shaw: Cronomoto

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Bob Shaw Cronomoto

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È uno dei temi più affascinanti della fantascienza: che cosa accadrebbe se potessimo fisicamente cambiare il tempo, creando nuovi mondi con un semplice gesto? Jack Breton, il protagonista di questo romanzo pieno di suspence e di sorprese, da nove anni non fa che pensare a quei pochi, fondamentali momenti che hanno preceduto la morte di sua moglie. Per correggere il suo errore deve riscrivere il passato. Ma con quali conseguenze?

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— Di cosa stai parlando, Gordon? — Miriam Palfrey si appoggiò allo schienale della poltrona, mentre la sua mano destra, posata sul blocco, si agitava come un aquilone al vento.

— Stavo raccontando a Kate e John del vecchio Hamish.

— Oh, sì… ci siamo proprio divertiti col vecchio Hamish. — La voce di Miriam era ridotta a un mormorio monotono, che suonava alle orecchie di Breton come un’imitazione incredibilmente banale di un vecchio film di Bela Lugosi. Notando l’espressione tesa e rapita di Kate, decise di lanciarsi in una accanita difesa del buonsenso, senza risparmiare colpi.

— Ah, così vi siete divertiti col vecchio Hamish — disse in tono di forzata allegria, e a voce molto alta. — Che quadretto! Mi par di vederlo, il vecchio Hamish, rintanato in un angolo della sua casupola, vecchio e rinsecchito, che fa divertire i Palfrey.

Ma Kate gli impose il silenzio con un cenno della mano, e Gordon Palfrey, che aveva spiegato il quadrato di velluto, lo drappeggiò sulla faccia di Miriam, sollevata verso l’alto. Immediatamente, la mano paffuta afferrò la penna e cominciò a volare sulla carta, tracciando righe su righe di nitida scrittura. Gordon si inginocchiò vicino al tavolinetto per tener fermo il blocco, mentre Kate staccava i fogli man mano che venivano riempiti. Li maneggiava con una deferenza che, per Breton, rappresentava l’aspetto più irritante di tutta quella ridicola faccenda. Se a sua moglie piaceva interessarsi alla cosiddetta scrittura automatica, non avrebbe potuto farlo con un po’ più di raziocinio? Lui stesso sarebbe stato disposto a parlarne, a esaminare il fenomeno, se Kate non avesse messo ogni riga nella categoria generica dei Messaggi dall’Aldilà.

— Nessuno ha bisogno di una bevutina? — Breton si alzò per andare al mobile-bar tappezzato internamente di specchi. “Bevutina” pensò. “Cristo! Come mi stanno riducendo?” Si versò una generosa dose di scotch, lo allungò con la soda, e si appoggiò al bar osservando la scena all’altro capo della stanza. Il corpo di Miriam Palfrey stava abbandonato sulla poltrona, ma la mano si muoveva con un’incredibile rapidità per scrivere, senza abbreviazioni, al ritmo di trenta parole al minuto. Il materiale che abitualmente produceva era una prosa fiorita, antiquata, che trattava di soggetti disparati, con una notevole abbondanza di parole come Bellezza e Amore, scritti sempre con la maiuscola. I Palfrey sostenevano che quegli scritti erano dettati dagli spiriti di autori defunti, che loro cercavano poi di identificare, in base allo stile. Breton aveva una sua opinione, in proposito, ed era più disgustato di quanto non ammettesse, nel vedere Kate accettare supinamente quelli che lui considerava trucchetti tolti di peso da un salotto vittoriano.

Bevendo il suo whisky, Breton guardava Kate raccogliere i fogli, numerarli e disporli in un mucchietto ordinato. Undici anni di matrimonio non avevano cambiato per niente il suo aspetto fisico: alta e ancora snella, vestiva abiti di seta dalle tinte vivaci, che portava come se fossero un piumaggio naturale, facendo venire in mente a Breton uno smagliante uccello esotico. Ma gli occhi erano invecchiati, e molto. “Nevrosi suburbana” pensò Breton. “Frammentazione della famiglia riflessa nell’individuo. Mettiamoci un’etichetta e non pensiamoci più. Una donna non è mai completamente moglie, finché tutti i membri della sua famiglia d’origine non sono morti. Riunite gli orfanotrofi e le agenzie matrimoniali. Bevo troppo…”

Un’esclamazione soffocata di Kate lo costrinse a riportare l’attenzione al gruppo intorno al tavolino. La mano di Miriam Palfrey aveva cominciato a tracciare qualcosa, che, da lontano, pareva un disegno a cerchi concentrici, come un garofano appena sbocciato. Breton si avvicinò e si accorse che la donna scriveva seguendo una spirale molto stretta e intanto gemeva e tremava. Un lembo del quadrato di velluto si sollevava e si riabbassava seguendo il ritmo affannoso del suo respiro, simile a quello di una foca.

— Cos’è? — chiese in tono annoiato Breton. Non voleva mostrare troppo interesse, ma si era accorto che stava succedendo qualcosa d’insolito. Al suono delle sue parole, Miriam si raddrizzò a sedere e suo marito le circondò le spalle col braccio.

— Non lo so — rispose Kate rigirando il foglio fra le dita. — Cioè… è una poesia.

— Be’, sentiamola. — Breton parlava con tollerante giovialità, seccato di essersi lasciato coinvolgere, ma comunque impressionato, se non altro, dall’abilità manuale di cui aveva fatto sfoggio Miriam.

Kate si schiarì la gola, e lesse:

Ti ho desiderato per mille notti
Mentre la verde fosforescenza della lancetta
si spostava lenta.
Il desiderio di te mi faceva piangere,
Ma tu non potevi assaporare le mie lacrime.

Senza che Breton riuscisse a capire perché, queste parole lo turbarono. Tornò al mobile-bar, e mentre gli altri esaminavano il frammento di poesia, rimase a fissare accigliato le bottiglie e i bicchieri moltiplicati dagli specchi. Sorseggiò la bibita ghiacciata e fissò i propri occhi nel microcosmo di cristallo; poi, di colpo, la sua mente trovò la spiegazione della frase “sono nove anni, quasi…". Se l’intuizione era esatta, queste erano le parole che lo avevano veramente colpito: una specie di bomba di profondità psicologica perfettamente centrata, e lanciata allo scopo di colpire a fondo. Nove anni prima, proprio in quello stesso mese, una macchina della polizia aveva trovato Kate che vagava nel buio della Cinquantesima Strada, con brandelli di cervello umano appiccicati alla faccia…

Allo squillo del telefono in anticamera Breton si sentì gelare, depose il bicchiere facendolo tintinnare, e lasciò la stanza per andare a rispondere.

— Qui Breton — disse seccamente. — Chi parla?

— Ciao, John, cosa succede? — Questa volta riconobbe subito la voce. Era quella di Carl Tougher.

— Carl! — Breton si abbandonò su una sedia e cercò le sigarette. — Sei stato tu a chiamarmi, meno di mezz’ora fa?

— No. Avevo troppo da fare.

— Ne sei certo?

— Ma cosa ti prende, John? Ti ho detto che avevo troppo da fare… quei sondaggi a Silverstream si stanno rivelando un bel guaio.

— I controlli non corrispondono?

— Proprio così. Stamattina ho fatto una serie di otto rilevamenti a caso, nell’area designata, e ho controllato con un gravimetro diverso dopo pranzo. Arrivati a questo punto, tutto quel che ti posso dire è che i sondaggi fatti il mese scorso erano completamente sballati. Secondo i nuovi rilevamenti, sono di circa venti milligal inferiori a quanto dovrebbero essere.

— Venti! Ma questo fa pensare che si tratti di una formazione rocciosa più leggera di quanto avessimo previsto. Potrebbe trattarsi di qualcosa come…

— Sale — concluse per lui Tougher. — Al tuo cliente interesserebbe una miniera di sale, invece di una costruzione in cemento?

Breton prese una sigaretta e l’accese, chiedendosi perché il mondo avesse scelto proprio quella sera per comportarsi in modo strano. — Senti, Carl. Queste discordanze possono essere interpretate in due modi. O, come dici tu, il calcare, e sappiamo che là sotto c’era calcare, si è trasformato di punto in bianco in sale, e, se me lo permetti, escluderei senz’altro questa ipotesi; oppure, chissà come, i nostri gravimetri vanno rettificati… giusto?

— Penso di si — ammise con voce stanca Tougher.

— Perciò domani prenderemo in affitto un altro paio di strumenti e rifaremo le prove.

— Immaginavo che avresti detto questo. Sai quante miglia ho fatto, John? Mi pare di aver attraversato a piedi tutto il Montana.

— La prossima volta verrò con te — promise Breton. — Ho bisogno di fare un po’ d’esercizio. Arrivederci a domattina, Carl.

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