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Bob Shaw: Cronomoto

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Bob Shaw Cronomoto

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È uno dei temi più affascinanti della fantascienza: che cosa accadrebbe se potessimo fisicamente cambiare il tempo, creando nuovi mondi con un semplice gesto? Jack Breton, il protagonista di questo romanzo pieno di suspence e di sorprese, da nove anni non fa che pensare a quei pochi, fondamentali momenti che hanno preceduto la morte di sua moglie. Per correggere il suo errore deve riscrivere il passato. Ma con quali conseguenze?

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— John! Quando avevi tredici anni, tua cugina Louise passò quasi tutta l’estate a casa tua. Aveva diciott’anni ed era ben fatta. E faceva il bagno, puntuale come un orologio, tutti i venerdì sera. Un pomeriggio, circa tre settimane dopo il suo arrivo, tu andasti in garage a prendere un trapano a mano, e con una punta da tre-trenta facesti un buco nel soffitto del bagno. Inseristi il trapano nella parte più larga di quella fessura a forma di Y che papà non si decideva mai a stuccare, perché così il foro sarebbe passato inosservato. Papà aveva adattato la parte centrale del solaio a deposito di granaglie, e aveva disposto i mucchi su dei grandi fogli. Ma tu avevi scoperto che, sotto a uno dei mucchi, c’era un’asse mobile in corrispondenza del soffitto del bagno. E così, quell’anno, ti divertisti a fare fotografie, John; e il solaio era una camera oscura ideale. Tutti i venerdì sera, quando Louise era nella vasca, tu salivi in quell’oscurità polverosa, ti inginocchiavi in corrispondenza del bagno, e…

— Basta! — John fece un passo in avanti tenendo un indice accusatore. Ma gli tremava la mano.

— Non te la prendere, John. Sto solo presentando le mie credenziali. Nessun altro al mondo conosce i fatti che ti ho appena finito di raccontare. L’unica ragione per cui li conosco, è la stessa che ti ho già esposto: io sono te. Io ho fatto quelle cose, e ora voglio che tu mi ascolti.

— Devo ascoltarti per forza — disse cupo John — È una serata infernale.

— Così va meglio — replicò Jack, rilassandosi un altro poco. — Ti secca se mi siedo?

— Fa’ pure. E a te secca se bevo?

— Sei il mio ospite. — Jack disse queste parole con naturalezza, senza pensarci, ma poi meditò sul loro significato. John era stato suo ospite per nove anni, in un modo in cui nessun altro era mai stato ospite prima; ma tutto questo stava per giungere alla conclusione. Quando entrambi si furono messi a sedere, Jack si protese nell’ampia poltrona, e prese a parlare con voce calma, fredda, ragionevole. Molto sarebbe dipeso dalla sua capacità di rendere credibile l’incredibile.

— Cosa ne pensi dei viaggi nel tempo, John?

John Breton bevve un sorso. — Penso che siano impossibili. Nessuno può viaggiare nel tempo, oggi come oggi, e se la tecnologia attuale è impotente in questo campo, è logico che non è mai stato trovato il sistema di farlo neppure in passato. E nessuno può venire a noi dal futuro, perché il passato è inalterabile. Ecco come la penso sui viaggi nel tempo.

— E l’altra direzione?

— Quale altra direzione?

— Dritto, ad angolo retto rispetto alle due direzioni che hai menzionato.

— Oh, quella — John Breton si versò ancora da bere. Aveva quasi l’aria di divertirsi. — Quando leggevo fantascienza, non li giudicavo viaggi possibili. Solo probabili.

— D’accordo — convenne Jack. — Cosa ne pensi di un viaggio probabile?

— Stai forse cercando di dirmi che vieni da un altro presente? Da un’altra corrente temporale?

— Sì, John.

— Ma perché mai? Ammesso che sia vero, che cosa ti ha portato qui? — John Breton portò il bicchiere alle labbra, ma non beve. Aveva gli occhi pensosi. — Nove anni, dicevi. Ha qualcosa a che fare con…?

— Ho sentito parlare, John. — Kate era sulla soglia. — Chi c’è con te? Oh…

Jack Breton si alzò mentre la donna entrava nella stanza, e la vista di lei gli riempì gli occhi, proprio come aveva fatto l’ultima sera che l’aveva vista viva, finché la sua immagine sommerse la sua coscienza: tridimensionale, nitida, perfetta. Lo sguardo di Kate s’incrociò per un istante col suo, poi si allontanò, e un lampo di piacere gli esplose nella mente. Era già arrivato fino a lei. Senza dire una parola, l’aveva raggiunta.

— John? — La voce di Kate era tremula, incerta. — John?

— È meglio che tu ti metta a sedere, Kate — disse John Breton con voce sottile e monotona. — Credo che il nostro amico abbia da raccontarci una storia.

— Forse anche Kate vuol bere qualcosa — propose Jack Breton. — Così può prendersi un attimo di respiro. — Kate lo guardava con una circospezione che lui trovava deliziosa, e dovette fare uno sforzo per mantenere la voce ferma. “Lei sa, lei sa.” Mentre l’altro se stesso le versava un liquido incolore, si accorse di correre il pericolo di fare un viaggio involontario. Esaminò il campo visivo e lo trovò nitido: niente teicopsia, nessuna stella nera che scendeva lentamente, nessun fenomeno di rafforzamento. Sembrava tutto a posto.

Lentamente, con cura, cominciò a ordinare i fatti, concedendo ai nove anni passati di ricrearsi sul canovaccio teso della sua mente.

3

Kate stava allontanandosi sul marciapiede illuminato dalle vetrine dei negozi. Con la mantella argentata strettamente avvolta sull’abito leggero, e le gambe lunghe rese ancor più slanciate dai tacchi altissimi dei sandali, pareva la versione, idealizzata per lo schermo, della pupa di un gangster. La luminosità delle vetrine la incorniciava, proiettandone l’immagine nitida nella sua mente, e lui vide, con lo stupore che desta sempre una nuova scoperta, la rete delle sottili vene azzurre nella parte posteriore delle sue ginocchia. Breton si sentì sopraffatto da un’ondata di puro affetto.

“Non puoi lasciare che Kate vada da sola di notte per la città vestita cosi” gli disse una voce. Ma l’unica alternativa era strisciarle dietro, e cedere alla sua volontà. Dopo aver esitato, si voltò incamminandosi nella direzione opposta, pieno di disgusto per se stesso e imprecando tra i denti.

Circa due ore dopo si fermò davanti a casa sua una macchina della polizia.

Breton, affacciato da un pezzo alla finestra, si precipitò ad aprire la porta. C’erano due agenti in borghese, dagli occhi scuri e indagatori e, dietro a loro, alcune figure in uniforme blu.

Uno dei due esibì un distintivo. — Il signor John Breton?

Breton annuì; incapace di parlare. “Mi spiace, Kate” pensò “mi spiace… torna, e andremo al ricevimento.”

— Sono il tenente Convery della Squadra Omicidi. Posso entrare?

— Sì — rispose Breton intontito, e li guidò in soggiorno. Dovette fare uno sforzo per non sprimacciare i cuscini, come una massaia nervosa.

— Non so come dirvelo, signor Breton — disse lentamente Convery. Aveva una faccia larga, cotta dal sole, e un naso piccolo che si distingueva appena in mezzo agli occhi azzurri molto distanziati.

— Che c’è, tenente?

— Si tratta di vostra moglie. Pare che fosse nel parco, stanotte, sola, ed è stata assalita.

— Assalita? — Breton si sentì tremare le ginocchia. — Ma dov’è adesso? Sta bene?

Convery scosse la testa. — Mi spiace, signor Breton. È morta.

Breton sprofondò nella poltrona mentre l’universo si restringeva e si espandeva intorno a lui come le cavità di un enorme cuore improvvisamente messo a nudo. “Sono stato io” pensò. “Io ho ucciso mia moglie.” Notò appena l’altro agente in borghese, che stava dicendo qualcosa sottovoce a Convery.

— Il mio collega — disse Convery dopo qualche istante — mi rimprovera per esser stato troppo esplicito, signor Breton. Ufficialmente, avrei dovuto dire che è stato trovato il cadavere di una donna che da alcuni particolari potrebbe risultare vostra moglie, ma in un caso chiaro come questo, è inutile tirarla per le lunghe. Comunque teniamoci alla prassi: avete ragione di credere che il cadavere di una donna sui venticinque anni, alta, coi capelli biondi, che indossava un abito da sera blu-argento, da noi trovata vicino all’ingresso della Cinquantesima Strada del parco comunale, non sia quello di vostra moglie?

— Nessuna ragione. Era uscita sola, stasera, vestita come avete detto voi. — Breton chiuse gli occhi. “Sono stato io. Ho ucciso mia moglie.” — Le ho permesso di andarsene da sola.

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