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Bob Shaw: Cronomoto

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Bob Shaw Cronomoto

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È uno dei temi più affascinanti della fantascienza: che cosa accadrebbe se potessimo fisicamente cambiare il tempo, creando nuovi mondi con un semplice gesto? Jack Breton, il protagonista di questo romanzo pieno di suspence e di sorprese, da nove anni non fa che pensare a quei pochi, fondamentali momenti che hanno preceduto la morte di sua moglie. Per correggere il suo errore deve riscrivere il passato. Ma con quali conseguenze?

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— Dobbiamo ancora procedere all’identificazione ufficiale. Se volete, uno degli agenti vi accompagnerà all’obitorio.

— Non è necessario — disse Breton. — Posso farcela da solo.

Il cassetto frigorifero uscì scorrendo sulle guide ben oliate. Breton guardò la faccia gelida, sognante di Kate, e le gemme di umidità che seguivano la curva delle sue sopracciglia. Mosse automaticamente la mano per accarezzare Kate. Ma, notando le unghie orlate di nero dell’olio di macchina, si fermò. “Non la devi sporcare.”

Il tenente Convery si mosse in un angolo del suo campo visivo, vicino eppure lontano anni-luce, al di là di un universo di pulsante sfavillio. — È vostra moglie?

— E chi, se no? — mormorò Breton stupito. — Chi?

Più tardi seppe che Kate era stata colpita, violentata e pugnalata. Un esperto, forse il medico legale, disse di non poter affermare con sicurezza in quale ordine si fossero svolti i fatti. Breton si tenne dentro la certezza della propria colpa per alcuni giorni, senza risentirne, mentre adempiva a inutili formalità. Ma contemporaneamente si rendeva conto di essere come una bomba in cui la miccia fosse già stata accesa, e stava vivendo i pochi secondi che avrebbero preceduto la sua disintegrazione.

Il momento giunse, con la falsa grazia di un’esplosione filmata, il giorno successivo a quello dei funerali di Kate. Breton camminava senza meta nella parte nord della città, in una strada fiancheggiata da case corrose dal tempo. La giornata era fredda, e, sebbene non piovesse, i marciapiedi erano umidi. Vicino a un angolo trovò una piuma intatta, pulita, e la raccolse. Aveva striature grigioperla e bianche; doveva essere caduta a un uccello. E Breton si rammentò di come Kate portasse gli abiti quasi fossero le sue piume. Cercò un davanzale su cui posarla, come un guanto perso, e vide un uomo malvestito che gli sorrideva dalla porta di una casa. Breton lasciò cadere la piuma, che scese volteggiando sul cemento sporco, e la calpestò.

L’azione successiva di cui si ricordava, risaliva ad alcune settimane dopo, quando aveva aperto gli occhi in un letto d’ospedale.

Quanto era successo in quell’intervallo di tempo non era andato completamente perduto, ma era monco e distorto come una scena vista attraverso lenti zigrinate. Aveva bevuto molto, per annullare la consapevolezza di sé nell’alcol, contraendo le frontiere della propria coscienza. E da qualche parte, nella nebbia di quel caleidoscopio era nata l’idea che, per la sua mente febbricitante, aveva tutta la semplicità del lampo di genio.

La polizia gli aveva detto che era difficile scoprire gli assassini psicopatici. In un caso come quello, poi, non avevano molta speranza di trovarlo. Pareva dicessero: “Se una donna se ne va di notte da sola nel parco, che cosa può aspettarsi?".

Breton si sentiva a disagio con loro. La cosa che lo sgomentava di più, pensava, nella mentalità dei poliziotti, era il fatto che, stando sempre a contatto coi criminali, avevano scoperto una morale diversa. Anche se non l’approvavano, almeno fino a un certo punto la capivano, e l’ago della loro bussola morale ne risultava deviato. In questa situazione lui si sentiva come un giocatore che non capisse le regole del gioco, e per lo stesso motivo i poliziotti lo guardavano con astio, quando chiedeva quali risultati avessero ottenuto. Alla fine, a un dato momento, nelle ultime settimane, aveva deciso di inventare delle nuove regole.

L’assassino di Kate non era stato visto da nessuno, e poiché non aveva avuto un motivo personale, specifico, per commettere il delitto, non c’era nulla che lo collegasse fisicamente a esso. Ma, pensava Breton, esisteva anche un altro tipo di legame. Lui non conosceva l’assassino, ma “l’assassino doveva conoscere lui". Il caso era stato ampiamente diffuso dai giornali e dalla TV locale, ed erano apparse numerose fotografie di Breton. Sarebbe stato assurdo se l’assassino non si fosse interessato all’uomo di cui aveva cosi selvaggiamente sconvolto l’esistenza. E ci fu un periodo in cui Breton si convinse che, se avesse incontrato l’assassino per strada, nel parco, in un bar, l’avrebbe riconosciuto dagli occhi.

La città non era grande, ed era possibile che, nel corso della sua vita, riuscisse a incontrare tutti gli abitanti. Evidentemente doveva uscire, girare di continuo per le strade, andare nei posti dove va la gente… e prima o poi lo avrebbe visto. Avrebbe guardato negli occhi di uno sconosciuto, e “avrebbe capito". E allora…

Il miraggio di quella speranza brillò davanti agli occhi di Breton per cinque settimane, finché non fu spento dalla denutrizione e dall’intossicazione alcolica.

Apri gli occhi, e, dalla tonalità della luce che si rifletteva sul soffitto dell’ospedale, capì che fuori aveva nevicato. Un insolito senso di vuoto gli attanagliava lo stomaco e provò il desiderio, sano, pratico, di un bel piatto di minestrone campagnolo. Si mise a sedere sul letto, si guardò intorno e si rese conto di trovarsi in una stanza privata che solo alcuni mazzi di rose rosse salvavano dall’anonimato. Riconobbe in quelle rose i fiori preferiti della sua segretaria, Hetty Calder, e gli passò per la mente il vago ricordo della sua faccia lunga, cosi nota, china su di lui con espressione preoccupata. Breton ebbe un breve sorriso. In passato, Hetty era letteralmente dimagrita tutte le volte che lui si pigliava un raffreddore… ora non riusciva a pensare quali fossero stati su di lei gli effetti del suo modo di vivere nelle recenti settimane.

Di nuovo sentì più forte il desiderio di mangiare, e allungò la mano verso il campanello.

Cinque giorni dopo, quando venne dimesso dall’ospedale, fu Hetty ad accompagnarlo a casa, con la sua macchina.

— Ascoltatemi, Jack — disse con un tono disperato nella voce. — Dovete proprio venire a stare un po’ da noi. Harry e io saremo felicissimi di avervi, e poiché siete rimasto solo…

— Starò bene a casa mia, Hetty — l’interruppe Breton. — Grazie per l’offerta, ma è arrivato il momento che torni a casa e incominci a raccogliere i cocci.

— Ma starete bene? — Hetty guidava con sicurezza nelle strade fiancheggiate da cumuli di neve sporca, manovrando la grossa vettura con piglio mascolino, aspirando a tratti dalla sigaretta, da cui cadeva ogni tanto un piccolo cilindro di cenere grigia. La sua faccia era segnata dall’ansia.

— Starò bene — ripeté lui, con gratitudine. — Adesso sono in grado di pensare a Kate. Mi fa un male d’inferno, naturalmente, ma almeno riesco ad accettare la realtà. Prima non ne ero capace. È difficile spiegarlo, ma avevo la sensazione che esistesse qualche ufficio statale, una specie di ministero della Morte, dove avrei potuto spiegare che c’era stato uno sbaglio, che Kate “non poteva” morire. Sto dicendo delle sciocchezze, Hetty.

Hetty lo guardò con la coda dell’occhio. — Parlate come un normale essere umano. Non c’è niente di strano in ciò che dite.

— Di solito, come parlo?

— Gli affari sono andati a gonfie vele, la settimana scorsa — disse la donna, cambiando tono e argomento. — Dovrete assumere altro personale.

Si mise a fargli un resoconto dei nuovi affari e dei nuovi contratti stipulati dall’azienda di consulenza tecnica di Breton. Mentre Hetty parlava, lui si rese conto che non gliene importava niente del lavoro e degli affari. Tecnico nato, aveva preso un paio di diplomi senza grande sforzo, s’era dedicato alle consulenze geologiche entrando come socio in una ditta specializzata, e, quando il socio si era ritirato, era rimasto solo a dirigere l’ufficio. Era sempre andato tutto facile, liscio, sicuro, eppure, in un certo senso, senza molta soddisfazione. Lui si era sempre divertito a fare, a creare, sotto l’estro dell’abilità innata delle sue mani, ma non aveva mai avuto il tempo di dedicarsi completamente al lavoro.

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