— Dottor Michelis, dottoressa Meid, dottor Ruiz-Sanchez — disse, — non so da dove cominciare. Vogliate accettare le mie scuse più sincere per il mio modo di fare scortese e sciocco. Mio Dio, quanto ci siamo sbagliati! Siete voi che trionfate adesso! E abbiamo terribilmente bisogno di voi, se accettate di farci questo favore. E se non accettate, non potrò biasimarvi.
— Niente più minacce? — disse Michelis, con rancore.
— No, niente minacce, ma infinite scuse. Si tratta di un favore, che vi chiede il Consiglio di Sicurezza. — Sul suo viso comparve una smorfia improvvisa, che svanì subito. — Mi… Mi sono offerto come volontario per rivolgervi questa preghiera. Abbiamo bisogno di voi, subito, sulla Luna.
— Sulla Luna? E perché?
— Abbiamo trovato Egtverchi.
— Impossibile — disse Ruiz, più seccamente di quanto avrebbe voluto. — Non avrebbe mai potuto ottenere il passaggio fin là. È forse morto?
— No, non è morto. E non è sulla Luna… non volevo intendere questo.
— Ma allora dov’è, in nome di Dio?
— A bordo di un’astronave in rotta per Lithia.
Il viaggio alla Luna per razzo traghetto fu lungo, penoso e scomodo. Poiché era il solo percorso su cui non si potesse usare la superpropulsione Haertel (sulle brevi distanze un’astronave con propulsione Haertel sarebbe andata al di là della meta) quel tragitto non aveva beneficiato di nessun vero miglioramento tecnico dai tempi dei vecchi razzi di von Braun. Fu solo dopo essere passato dal razzo al trattore lunare che doveva portarli all’osservatorio del conte di Averoigne, che Ruiz-Sanchez riuscì a mettere insieme i vari pezzi della storia.
Quando Egtverchi era stato trovato a bordo d’una delle navi che portavano a Cleaver le ultime parti del suo equipaggiamento, l’astronave aveva lasciato la Terra già da due giorni. Il Lithiano era mezzo morto. In un ultimo sforzo disperato, s’era imballato da sé in una cassa, che aveva indirizzato a Cleaver, con le scritte «FRAGILE, RADIOATTIVO, NON CAPOVOLGERE» e spedito per via normale all’astroporto. Anche un Lithiano doveva patire i disagi di un simile trattamento, ed Egtverchi, oltre a essere piuttosto minuto per la sua razza, era già in fuga da varie ore al momento della spedizione.
L’astronave aveva anche a bordo un prototipo trasportabile del CirCon di Petard; e fin dalla prima prova dell’apparecchio il capitano aveva potuto comunicare al conte di avere un clandestino a bordo. Il conte ne aveva informato l’ONU per via radio. Egtverchi era stato messo ai ferri, ma sembrava allegro e in buona salute. Poiché era impossibile all’apparecchio tornare indietro, l’ONU, in definitiva, gli stava facendo un favore, a una velocità molto superiore a quella della luce.
Ruiz-Sanchez provò un’ombra di pietà per quell’essere nato esule e che trasportavano ora, chiuso come una belva tra le sbarre d’una gabbia, in attesa di sbarcarlo nel suo mondo natio, di cui non conosceva nemmeno la lingua. Ma quando l’uomo dell’ONU cominciò a far loro delle domande (occorreva un’attendibile previsione delle prossime mosse di Egtverchi) la pietà lasciò il posto alle ipotesi concrete. Era giusto e doveroso avere pietà dei bambini, ma Ruiz-Sanchez cominciava a convincersi che gli adulti, di solito, si meritano le sciagure in cui incorrono.
Il trauma che una creatura come Egtverchi avrebbe causato in una società stabile come quella di Lithia sarebbe stato esplosivo. Sulla Terra, almeno, Egtverchi era stato una sorta di mostro, di fenomeno da baraccone; su Lithia, invece, sarebbe stato considerato un altro Lithiano. E la Terra aveva avuto esperienze molteplici, in ogni epoca della sua storia, di quel genere di falsi profeti; ma un simile evento non si era mai verificato su Lithia. Egtverchi avrebbe fatto marcire quel giardino paradisiaco fino alle radici, per rifarlo a sua propria immagine, trasformando il pianeta in quell’ipotetico nemico contro cui Cleaver stava costruendo il suo arsenale!
Eppure, qualcosa di simile era accaduto anche sulla Terra, quando essa era ancora un giardino senza variazioni. Forse ( O felix culpa! ) succedeva sempre così, itutti i mondi. Forse l’Albero della Conoscenza del Bene e del Male era come l’Yggdrasil delle leggende della terra natale di Papa Adriano, che affondava le radici nel pavimento dell’universo e che sui rami portava i pianeti: chi assaggerà i frutti dell’uno potrà assaggiare quelli dell’altro…
No, questo non doveva succedere. Lithia come Giardino contraffatto era già abbastanza pericolosa; ma Lithia trasformata in una città di Dite grande come un pianeta era una minaccia per i Cieli stessi.
L’osservatorio del conte d’Averoigne era stato eretto dall’ONU, in base alle sue direttive, al centro del cratere Stadius. Quell’antico, vastissimo cratere, agli inizi della sua storia era stato ricoperto e parzialmente calcinato dai flutti di lava che avevano costituito il Mare Imbrium. Quel che restava dei suoi bordi serviva al conte e ai suoi assistenti da bastione difensivo contro le meteoriti durante le «piogge»; tuttavia questo bastione restava al di sotto dell’orizzonte, cosa che permetteva al conte di puntare il suo telescopio in tutte le direzioni.
D’Averoigne non era diverso dalla volta precedente in cui lo avevano incontrato, ad eccezione del fatto che indossava una tuta scura invece di un abito scuro, e parve contento di rivederli. Ruiz sospettò che dovesse sentirsi a volte terribilmente solo, così estraniato sulla Luna dalla sua famiglia e dall’umanità intera.
— Ho una sorpresa per voi — disse loro. — Abbiamo terminato il nuovo telescopio: 200 metri di diametro, il complesso lenticolare composto di foglie di sodio. Sorge sul Monte Piton, poche centinaia di chilometri a nord. I cavi di collegamento ci sono stati portati ieri; ho passato tutta la notte a verificare i miei circuiti. Adesso hanno un aspetto più elegante della scorsa volta.
L’oggetto che ora il conte mostrava loro era una semplice cassa di smalto nero, grande quanto un magnetofono, e più o meno con lo stesso numero di manopole.
— Naturalmente, è più facile a farsi, ciò che intendiamo fare ora, che non captare un impulso da un trasmettitore che non è attrezzato con CirCon — ammise il conte. — Ma i risultati sono altrettanto soddisfacenti. Guardate.
Con un gesto drammatico, premette un pulsante. Sul grande schermo teso sulla parete opposta della sala osservatorio, un grande pianeta galleggiava nello spazio, circondato di nubi.
— Mio Dio! — mormorò Michelis. — Ma quello è… Lithia, non è vero, conte d’Averoigne?
— Vi prego: qui sono il dottor Petard. Sì, è Lithia. Il suo sole è visibile dalla Luna un po’ più di dodici giorni al mese. Sebbene lontano cinquanta anni luce, lo vediamo a una distanza apparente di circa trecentomila chilometri, un po’ meno di quella che divide la Terra dalla Luna. È notevole la quantità di luce che si può ottenere con un paraboloide di sodio di duecento metri e la totale mancanza di atmosfera. Ovviamente, se ci fosse un’atmosfera, non potremmo neppure avere la superficie riflettente… la gravità stessa, qui, è quasi troppa.
— Incredibile — mormorò Liu.
— E non è che il principio. Abbiamo abbracciato non solo lo spazio, ma anche il tempo. Il pianeta che abbiamo sotto gli occhi è Lithia quale è in questo momento stesso, e non Lithia qual era cinquant’anni fa.
— Complimenti — disse Michelis, impressionato. — Naturalmente, la difficoltà maggiore dev’essere stata la realizzazione pratica… ma mi pare che siate riuscito a completare l’installazione in un tempo record.
— Già, lo penso anch’io — disse il Conte, togliendosi di bocca il sigaro e mettendosi a rimirarlo con compiacenza.
— Potremmo dunque assistere all’arrivo dell’astronave di Egtverchi? — domandò l’uomo dell’ONU.
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