James Blish - Guerra al grande nulla

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Guerra al grande nulla: краткое содержание, описание и аннотация

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È possibile che gli altri mondi non siano abitati. Ma finora, niente esclude che possano invece ospitare forme di vita, simili o no alla nostra. Questo è un problema che le scoperte della nuova scienza rendono attuale e non più ignorabile, una questione che va considerata sotto tutti gli aspetti. Anche quello religioso. Infatti, fra i doveri della Chiesa c'è quello di mantenersi in linea coi tempi; e il punto a cui è arrivata la giovane scienza spaziale ha spinto appunto la Chiesa a interessarsi dell'eventualità che esistano altri pianeti abitati. A questo proposito importanti esponenti del Clero hanno consentito a rispondere alle domande dei giornalisti, e il risultato delle speciali recenti interviste è stato ampiamente pubblicato su autorevoli quotidiani. Il romanzo che presentiamo in questo numero sembra scritto proprio in seguito alle ipotesi formulate da un Padre Gesuita nel corso del colloquio cui abbiamo accennato. E, guarda caso, a protagonista del suo romanzo, James Blish ha scelto un Gesuita. Il tema è ardito, e solo un autore intelligente, obiettivo, e abile come Blish lo poteva affrontare. Ne è uscito il racconto più eccitante che sia mai stato scritto nel campo della fantascienza. Un romanzo che i lettori di Urania non possono ignorare.
Premio Hugo per miglior romanzo in 1959.

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— Sì — disse Ruiz-Sanchez. — Proprio come dite voi, Mike… per l’amor di Dio.

Il Gesuita biologo si svegliò per primo: e in effetti, di loro quattro, era colui che fisicamente si era meno affaticato. Era già il crepuscolo, un crepuscolo nuvoloso, quando, sceso dalla sua amaca, si avvicinò in punta di piedi a Cleaver, per dargli un’occhiata.

Il fisico era in coma. Il suo volto, d’un grigio terreo, sembrava essersi raggrinzito. Era tempo di rettificare l’abuso a cui era stato sottoposto, clinicamente parlando. Fortunatamente, polso e respirazione erano ridiventati quasi normali.

Ruiz-Sanchez si recò nel laboratorio, dove preparò una soluzione nutriente di fruttosio da somministrare per via endovenosa. Intanto, con un barattolo di uova in polvere, preparò una specie di soufflé e lo mise, coperto, in fondo al piccolo forno: doveva servire da colazione agli altri tre.

Nella camera del dormiente, montò il piccolo apparato per l’ipodermoclisi. Cleaver non si mosse nemmeno quando l’ago gli penetrò nella vena, immediatamente sopra l’incavo del gomito. Ruiz-Sanchez fissò il tubicino al braccio con del cerotto, controllò il flusso che usciva dalla bottiglia rovesciata, quindi tornò nel laboratorio. Là, arrampicatosi sullo sgabello davanti al microscopio, rimase in una specie di intorpidito non essere, mentre, fuori, un’altra notte calava. Era ancora stanco delle emozioni del giorno precedente, ma ora, almeno, poteva rimanere sveglio senza dover continuamente lottare con se stesso. Il soufflé si gonfiava lentamente, nel forno, e dopo qualche minuto un vago e sottile profumo indicò che cominciava ad arrosolarsi sulla parte superiore.

Fuori, improvvisamente, la pioggia cominciò a cadere a rovesci; poi con la stessa subitaneità, spiovve. La breve e calda estate lithiana volgeva al suo termine; l’inverno sarebbe stato lungo e dolce; la temperatura, a quella latitudine, non scendeva mai sotto i 20 gradi centigradi. Perfino ai poli, la temperatura invernale si manteneva al di sopra dello zero, con una media abituale d’una quindicina di gradi.

— È la colazione che manda questo profumino?

— Sì, Mike, nel forno. Ancora pochi minuti.

— Bene.

Michelis scomparve di nuovo. Sull’orlo del suo tavolo di lavoro, Ruiz-Sanchez scorse il volume azzurro cupo, dal titolo dorato, che aveva portato seco fin là dalla lontana Terra. Quasi automaticamente lo trasse a sé e, quasi automaticamente, il libro si aprì a pagina 573. Almeno, con quel volume, aveva qualcosa a cui pensare che non lo. riguardava direttamente.

L’ultima volta che aveva lasciato il testo, era stato quando Anita «cedeva alla lussuria di Honuphrius per placare la barbarie di Sulla e il mercenarismo dei dodici Sullivani e (come aveva suggerito Gilbert fin dal principio) per salvare la purezza di Felicia a favore di Magravius…» Ora, vediamo, un po’, come si poteva considerare Felicia ancora pura? … Ah… «quando ella fosse stata convertita da Michele dopo la morte di Gillia». Ora tutto si spiegava, dato che Felicia non s’era resa colpevole originariamente che di semplici infedeltà. «Ma essa teme che, concedendogli di far valere i suoi diritti coniugali, essa stessa possa destare una condotta reprensibile tra Eugenius e Jeremias. Michele, che in precedenza aveva traviato Anita, la dispensa dal cedere a Honuphrius»… sì, la cosa aveva senso, perché anche Michele aveva fatto dei progetti su Eugenius. «Anita ne è turbata, ma Michele decide che salverà la sua causa per portarla l’indomani a Guglielmo, anche se essa dovesse commettere una pia frode durante una confricazione che, per esperienza, lei sa (secondo Wadding) non approderà a nulla.»

Bene. Tutto ciò andava benissimo. Il romanzo ora, e per la prima volta, sembrava assumere forma e coerenza; l’autore evidentemente aveva saputo con la massima esattezza quello che stava facendo, ad ogni passo della narrazione. Ruiz-Sanchez si disse che non gli sarebbe piaciuto conoscere quella famiglia immaginaria, nascosta dietro gli pseudonimi latini, e ancor meno gli sarebbe piaciuto esserne il confessore.

Sì, il racconto stava in piedi, appena si fosse considerato senza passione ognuno dei personaggi — che del resto erano immaginari: personaggi di un romanzo — o l’autore, il quale, per grande che fosse il suo talento, il più grande certo che mai si fosse dedicato alla narrativa di lingua inglese e forse di ogni altra lingua al mondo, doveva tuttavia essere commiserato almeno quanto la più bassa vittima del Maligno. Appena lo si fosse considerato, cioè, dalla prospettiva di una sorta di grigio crepuscolo emotivo, in cui ogni cosa, compresa tutta l’incrostazione di commenti che si erano accumulati sul testo a partire da quando era apparso, all’inizio del Novecento, poteva venire osservata sotto questa luce.

— È pronto, Padre?

— A giudicare dall’odore, direi di sì, Agronski. Perché non lo tirate fuori dal forno e non vi servite?

— Grazie. Posso darne a Cleaver?

— No. Gli ho fatto un’ipodermoclisi.

— Vedo.

A meno che la sua impressione di avere finalmente capito il problema si dovesse rivelare, ancora una volta, per un’illusione, egli era adesso pronto per la domanda fondamentale, imbarazzante, che turbava profondamente l’Ordine e la Chiesa da tanti decenni. La rilesse attentamente. Chiedeva:

«Ha costui l’egemonia e lei si sottometterà?»

Con stupore, si accorse ora, per la prima volta, che si trattava di due domande distinte, nonostante l’omissione di una virgola tra l’una e l’altra. Occorrevano dunque due risposte. Honuphrius aveva l’egemonia? Sì, certo, perché Michele, il solo membro di tutto il complesso che fin dal principio fosse stato dotato del potere della grazia, era stato clamorosamente compromesso. Di conseguenza, Honuphrius, indipendentemente dal fatto che tutti i suoi peccati stessero per emergere in pubblico oppure fossero soltanto delle chiacchiere, non poteva venire spodestato dei suoi diritti da nessuno.

Ma Anita doveva sottomettersi? No, certo no. Michele aveva perduto il diritto di darla o di riservarla in qualunque maniera; così che Anita non poteva essere guidata né dal vicario, né da alcun altro, in fin dei conti, che non fosse la sua coscienza, che, date le gravi accuse portate contro Honuphrius, non avrebbe potuto portarla ad altro che a ripudiarlo. Quanto al pentimento di Sulla e alla conversione di Felicia, non avevano significato alcuno, dopo che la defezione di Michele aveva privato questi due — e ciascun altro — d’ogni tutela spirituale.

Così che la risposta non aveva mai cessato di essere evidente: essa era, Sì, e No.

E tutto questo era sempre dipeso da una virgola messa al posto giusto. Uno scherzo di scrittore. La dimostrazione del fatto che il più grande romanziere di tutti i tempi aveva speso diciassette anni a scrivere un libro il cui problema centrale era rappresentato dalla posizione di una virgola. Così l’Avversario dissimula la sua vacuità, e svuota i propri seguaci.

Il Gesuita richiuse il volume con un brivido e abbassò gli occhi sul tavolo. Si sentiva ancora molto stanco, ma nel profondo del suo intimo s’agitava un lieve sentimento di soddisfazione che lui non poteva sopprimere. Nell’eterna lotta, l’Avversario aveva conosciuto una nuova sconfitta.

Mentre guardava intorpidito fuori dalla finestra il buio e la pioggia, vide una testa, poi delle spalle scultoree passare nel tetraedro tronco di luce gialla proiettato nella pioggia attraverso il vetro. Era Chtexa, che si allontanava.

Improvvisamente, Ruiz-Sanchez ricordò che nessuno si era ricordato di togliere dalla tavoletta l’annuncio della malattia: Chtexa, se era venuto per qualche motivo importante, si era allontanato senza ragione. Ruiz-Sanchez si alzò, e presa una bottiglia vuota, batté con essa sui vetri della finestra.

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