Grant si girò di scatto, e si scagliò di nuovo in avanti, e un ringhio gli saliva dalla gola. Blaine, con i tacchi piantati saldamente sul pavimento, sferrò un pugno fulmineo, lo sentì centrare la carne e le ossa, sentì un brivido che scorreva nel corpo di Grant, mentre l’uomo indietreggiava, vacillando.
Blaine colpì ancora ed ancora, seguendo Grant: erano colpi il cui urto saliva dalle sue ginocchia, e arrivavano a segno con un impatto che gli intorpidiva tutto il braccio, dal gomito in giù… colpi che scuotevano Grant e lo facevano barcollare e lo ricacciavano indietro, spietatamente, inesorabilmente.
Non era la collera che animava Blaine, anche se in lui c’era collera: e non era paura e non la sicurezza di sè: era la semplice, fredda logica. Quella era la sua unica possibilità; doveva finire l’uomo che gli era davanti, altrimenti sarebbe stata finita per lui.
Era riuscito a disorientarlo con quel primo colpo fortunato, e non poteva fermarsi. Poiché non era altrettanto massiccio, avrebbe perduto tutto il suo vantaggio, se avesse lasciato che Grant riacquistasse l’equilibrio, se gli avesse lasciato la possibilità di ripiombargli addosso o di sferrargli un pugno.
Grant vacillava pazzamente, con le mani che artigliavano frenetiche l’aria: era ormai stordito dai colpi. Deliberatamente, senza pietà, Blaine mirò il mento.
Il colpo arrivò a segno, con un tonfo sommesso, e la testa di Grant si rovesciò all’indietro, ripiegandosi da un lato. Il suo corpo diventò una cosa inerte, quasi priva di muscoli e di ossa, che si piegava su se stessa. Grant si afflosciò e cadde sul pavimento, vi giacque come un pupazzo di stoffa privato della forza interiore della segatura.
Blaine lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi. Sentiva il dolore pungente dei tagli nelle nocche delle dita, l’intorpidimento sordo e tormentoso che gli invadeva i muscoli esausti.
E poi lo colse un vago senso di sbalordimento… gli sembrava strano che gli fosse riuscito di fare una cosa simile: lui, con i suoi pugni, era riuscito a ridurre in un fantoccio sanguinante quell’uomo grande e grosso.
Aveva centrato il primo colpo, e quella era stata la sua fortuna, pura e semplice fortuna. E aveva trovato la chiave che faceva disserrare la vestaglia, e anche quella era stata una semplice fortuna?
Rifletté, e comprese che non era stata fortuna: era stata una buona, solida informazione ripescata dallo schedario di fatti scaricato nel suo cervello quando l’essere di quel pianeta lontano cinquemila anni-luce aveva scambiato la propria mente con la sua. Quella frase era un ordine, che imponeva alla vestaglia di togliere le grinfie dalla preda che aveva intrappolato. Durante uno dei suoi vagabondaggi mentali in mondi inimmaginabili, il Rosa aveva assorbito un quantitativo enorme di informazioni relative al popolo dei cactus. Dotato di una tremenda facoltà di discernimento, era riuscito a selezionare l’unico fatto, in apparenza privo di importanza, che in un dato momento aveva acquistato un enorme valore come fattore di sopravvivenza.
Blaine continuò a guardare Grant: e l’uomo non dava segno di rinvenire.
E adesso cosa doveva fare? si chiese Blaine.
Doveva andarsene di lì, naturalmente, e il più presto possibile. Perché fra poco, indubbiamente, qualcuno dell’Amo sarebbe uscito dal transo, a chiedere come mai lui non era stato ancora recapitato a destinazione.
Sarebbe fuggito di nuovo, si chiese Blaine, amaramente. Fuggire era la sola cosa che sapeva fare bene. Ormai erano settimane che continuava a fuggire, e a quanto sembrava, la sua fuga era destinata a non avere mai fine.
Un giorno o l’altro, lo sapeva, avrebbe dovuto smettere di fuggire. Avrebbe dovuto fermarsi da qualche parte, per resistere, se non per nessun altra ragione, per salvare la propria dignità, il rispetto verso se stesso.
Quel momento, però, non era ancora venuto. Quella notte lui sarebbe fuggito di nuovo: ma questa volta la sua fuga avrebbe avuto uno scopo preciso. Questa volta avrebbe guadagnato qualcosa, finalmente, dalla sua fuga.
Si girò per prendere la bottiglia di liquore posata sulla tavola: e incespicò nella vestaglia, che stava muovendosi a lenti sobbalzi sul pavimento. Le sferrò un calcio con rabbia, e la vestaglia scivolò via, debolmente, cadde e si ammucchiò su una specie di grumo lucente nell’angolo, accanto al cammino.
Blaine afferrò la bottiglia nel pugno, e attraversò lo stanzone, si diresse verso le merci accatastate nella sezione destinata a magazzino.
Adocchiò una balla di merce, e la tastò: era morbida e secca. Vi versò sopra il contenuto della bottiglia, e poi scaraventò la bottiglia vuota in un angolo della stanza.
Ritornò al camino, sollevò il parafuoco e lo gettò via, prese la paletta e raccolse un mucchietto di braci fiammeggianti. Andò a scaricare quelle braci sulla balla di merce intrisa di liquore, poi gettò via la paletta, e indietreggiò.
Piccole fiamme azzurrine avvolsero la balla, lingueggiando. Si diffusero e ingrandirono, crepitando.
Tutto bene, pensò Blaine.
Entro cinque minuti, l’edificio sarebbe stato avvolto dalle fiamme. Il magazzino si sarebbe trasformato in un inferno, e niente avrebbe potuto impedirlo. Il transo si sarebbe sfasciato e fuso, e la strada che portava fino all’Amo sarebbe stata chiusa.
Si chinò afferrò Grant per il collo della camicia e lo trascinò verso la porta. Aprì l’uscio e tirò fuori l’uomo, lo portò in cortile, ad una decina di metri dall’edificio.
Grant gemette pesantemente e cercò di sollevarsi sulle mani e sulle ginocchia, poi tornò a ricadere, esausto, al suolo. Blaine si chinò, lo trascinò via, per altri tre o quattro metri: poi lo lasciò andare. Grant mugolò e gemette e si agitò, ma era troppo sfinito e dolorante per potersi rialzare.
Blaine si diresse verso il vicoletto e rimase lì, per un minuto, a osservare. Le finestre della Stazione di Scambio incominciavano a riempirsi del bagliore rosso delle fiamme, ed era una vista molto soddisfacente.
Blaine si voltò e si avviò a passi leggeri, per uscire dal vicoletto.
E adesso, si disse, era proprio il momento più adatto per fare visita a Finn. Fra pochi istanti la città sarebbe stata sconvolta per l’incendio della Stazione di Scambio, ed i poliziotti avrebbero avuto troppo da fare per perdere tempo con un uomo che se ne andava in giro nonostante il coprifuoco.
Sui gradini dell’albergo c’era un gruppo di persone. Stavano guardando l’incendio, che saliva ruggendo nel cielo notturno, ad un paio di isolati di distanza. Nessuno prestò la minima attenzione a Blaine. Dei poliziotti, neppure l’ombra.
«Un’altra azione dei rifo, certamente», stava dicendo un tale ad uno che gli stava vicino.
L’altro annuì.
«Chissà mai in che modo funziona il loro cervello», osservò. «Di giorno vanno là a fare acquisti, e poi di notte ci tornano di nascosto e danno fuoco a tutto quanto».
«Ti giuro, in nome di Dio», disse il primo, «che non so proprio come mai l’Amo li sopporti. Potrebbe benissimo reagire e con la massima energia».
«All’Amo non importa un accidente», rispose il secondo. «Io ho passato cinque anni presso l’Amo, e posso garantirti che è un posto proprio strano».
Quelli erano giornalisti, si disse Blaine. L’albergo era pieno zeppo di giornalisti che erano accorsi per assistere al sermone che Finn avrebbe tenuto l’indomani. Guardò l’uomo che aveva detto di avere passato cinque anni presso l’Amo, ma non riusci a riconoscerlo.
Salì i gradini ed entrò: l’atrio era quasi completamente deserto. Infilò i pugni nelle tasche della giacca, perché nessuno vedesse le nocche spellate e sanguinanti.
L’albergo era piuttosto vecchio, e i mobili dell’atrio, a giudicare dal loro aspetto, non erano stati sostituiti ormai da molti anni. Tutto era antiquato e sbiadito, e c’era l’odore vago e acido delle molte persone che avevano vissuto per qualche ora sotto il tetto.
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