Non era mai stato là, e non aveva mai parlato con qualcuno che c’era stato, anche se forse, poteva trattarsi di qualcosa che ricordava di avere visto nel dimensino… in qualche ora oziosa di molti anni prima: ed il ricordo era rimasto sepolto profondamente nella sua memoria insospettato fino a quel momento.
L’immagine diventò più vivida e più chiara, come se da qualche parte, dentro al suo cervello, qualcuno stesse regolando una lente per offrirgli una visione più limpida: e adesso poteva vedere tutti i particolari che agghiacciavano la mente, le forme di vita che popolavano quella giungla caotica. Erano orrende e oscene e strisciavano e serpeggiavano e avevano una ferocia fredda e studiata, la crudeltà dell’indifferenza e dell’ignoranza, spinte soltanto da una fame e da un odio egualmente primordiali.
Blaine fu agghiacciato dall’orrore abissale di quel luogo, perché gli sembrava quasi di essere veramente lì, come se una parte di lui continuasse a giacere sul pavimento, davanti al camino, mentre l’altra metà si trovava, nella realtà più autentica, dentro a quella giungla orribile.
Gli parve di udire un rumore: o meglio, quell’altra metà di lui ebbe l’impressione di udire un rumore, e alzò lo sguardo verso qualcosa che avrebbe potuto essere un albero, anche se era troppo nodoso, troppo irto di spine e troppo maligno per essere un albero vero e proprio; e nell’alzare lo sguardo vide la vestaglia, che pendeva da un ramo, con la polvere di diamanti triturati che scintillava sulla pelliccia, e si accingeva a lasciarsi cadere su di lui.
Urlò, o almeno gli sembrò di urlare, e il pianeta ed i suoi abitanti sbiadirono e scomparvero, come se la mano che stava dentro al suo cervello avesse mosso la lente in modo da mettere fuori fuoco la visuale.
Blaine era ritornato, intero, nel mondo del camino e del magazzino, con il transo che stava là, in un angolo. La porta che dava sul negozio si aprì, ed entrò Grant.
Grant chiuse la porta dietro di sè, lentamente e con cura. Poi si voltò di scatto e rimase lì, in silenzio, immenso e massiccio, a guardare l’uomo sdraiato sul pavimento.
«Signor Blaine», disse, sottovoce. «Signor Blaine, è ancora sveglio?»
Blaine non rispose.
«Ha gli occhi aperti, signor Blaine. Le è successo qualcosa, a volte?»
«Niente», rispose Blaine. «Me ne stavo semplicemente qui sdraiato a pensare».
«Pensieri piacevoli, signor Blaine?»
«Sì, molto piacevoli».
Grant venne avanti lentamente, silenziosamente come un gatto, come se inseguisse qualcosa. Arrivò alla tavola e prese la bottiglia, se la portò alla bocca e bevve, gorgogliando.
Poi depositò la bottiglia.
«Signor Blaine, perché non si alza? Potremmo starcene seduti a parlare per un po’, e a bere un paio di bicchierini. Non mi capita spesso di fare quattro chiacchiere con la gente. Vengono qui a comprare, naturalmente, ma non parlano con me più di quanto sia strettamente indispensabile».
«No, grazie», disse Blaine. «Sto molto comodo, così».
Grant si scostò dalla tavola, e andò a sedersi su una delle poltrone accanto al cammino.
«È stato un vero peccato», disse, «che lei non sia ritornato all’Amo con il signor Rand. L’Amo è un posto molto interssante».
«Ha proprio ragione», rispose Blaine: rispondeva automaticamente, senza prestargli molta attenzione.
Perché adesso sapeva… Sapeva dove aveva trovato quel ricordo, dove aveva raccolto l’immagine mentale di quell’altro pianeta. L’aveva tratto dalle cataste disordinate di informazioni che aveva ricevuto dal Rosa. Lui in persona, naturalmente, non aveva mai visitato quel pianeta. Ma il Rosa l’aveva visitato.
E quel ricordo non era semplicemente l’immagine del luogo, proiettata come per mezzo d’una lanterna magica. C’era anche tutto uno schedario di dati relativi al pianeta e alle forme di vita che lo abitavano. Ma era ancora in disordine, non erano ancora stati suddivisi, ed era molto difficile orientarsi.
Grant si appoggiò alla spalliera della poltrona con un sorrisetto appena appena maligno.
Poi allungò una mano e picchiettò le dita sulla vestaglia, che emise un suono simile a quello d’un tamburo smorzato.
«Bene», domandò, «le piace, signor Blaine?»
«Glielo farò sapere», gli rispose Blaine, «quando riuscirò a metterle le mani addosso».
Grant si alzò dalla poltrona e ritornò alla tavola, girando attorno a Blaine. Beffardamente. Prese la bottiglia, se la portò alla bocca e bevve un altro lungo sorso.
«Non ci riuscirà, a mettermi le mani addosso», disse, «perché fra un momento la spingerò dentro quel transo laggiù, e la rispedirò diritto all’Amo».
Un altro sorso poi depose la bottiglia.
«Non so che cosa abbia fatto», disse. «Non so perché la vogliano. Ma eseguo gli ordini».
Tornò a sollevare a mezzo la bottiglia, poi cambiò idea. La spinse al centro della tavola, si avvicinò a Blaine e restò lì, a torreggiare sopra di lui.
C’era un’altra immagine di un altro pianeta, e c’era un essere che camminava lungo qualcosa che avrebbe potuto essere una strada. L’essere era completamente diverso da tutti quelli che Blaine aveva avuto occasione di vedere. Sembrava un cactus ambulante, ma non era affatto un cactus, e con ogni verosimiglianza non era neppure un vegetale. Ma né quell’essere né la strada erano molto importanti. Quello che contava era il fatto che alle calcagna del cactus, trotterellando goffamente su quella che poteva essere una strada, c’erano una dozzina di vestaglie.
Cani da caccia, pensò Blaine. Il cactus era un cacciatore, e quelli erano i suoi cani. Oppure era un trapper , e quelle erano le sue trappole. Erano vestaglie, importate da quel pianeta tutte giungle, e addomesticate, forse catturate da qualche viaggiatore spaziale abbastanza resistente per sopportare le radiazioni stellari, e portare su quel pianeta, per venire scambiate con qualche altra merce di valore.
Forse pensò disperatamente Blaine, era proprio da quel secondo pianeta che la vestaglia avvolta strettamente attorno a lui era stata portata all’Amo.
E c’era anche qualche cosa d’altro che martellava il suo cervello. Una specie di frase, una frase molto aliena, forse nel linguaggio del cactus. Era barbara e per pronunciarla bisognava torcere la lingua, e non aveva senso, ma mentre Grant si chinava con le mani protese per afferrarlo e sollevarlo, Blaine urlò quella frase con tutte le sue forze.
E mentre urlava, la vestaglia si staccò. Non lo teneva più bloccato. Blaine rotolò via, con una poderosa torsione del corpo, verso le gambe dell’uomo che si stava chinando verso di lui.
Grant finì lungo disteso, con la faccia contro il pavimento, lanciando un ruggito di rabbia. Blaine, strisciando freneticamente sulle mani e sulle ginocchia, si liberò e balzò in piedi, sfrecciò al di là della tavola.
Grant si rialzò dal pavimento. Il sangue gli sgocciolava lentamente dal naso, che aveva battuto sull’impiantito. Una mano era spellata, e perdeva sangue dalle nocche.
Mosse un rapido passo in avanti, e il suo volto era alterato da una duplice paura… la paura di un uomo che era riuscito a liberarsi della stretta della vestaglia, e la paura di avere fallito il proprio colpo.
Poi balzò, a testa bassa, a braccia protese, con le dita aperte, per afferrare Blaine. Era grande e grosso e poderoso, ed era spinto da una disperazione estrema che lo rendeva doppiamente pericoloso, perché non pensava neppure ai rischi che lo potevano minacciare.
Blaine girò su se stesso, spostandosi… ma non riuscì a spostarsi abbastanza. Una delle mani protese di Grant gli afferrò la spalla, non riuscì a tenere la presa: le dita tirarono, artigliando furiosamente, ma si chiusero sulla camicia di Blaine, che si lacerò con una specie di stridio sommesso.
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