Clifford Simak - Pescatore di stelle

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L’Uomo vuole raggiungere le Stelle, ma non con mezzi tecnici comuni o strabilianti astronavi, bensì mediante una forma superiore di telecinetica, capace di proiettare la mente e quindi il corpo negli spazi infiniti. Il lettore compirà con la fantasia un viaggio che contempla mete raggiungibili soltanto dopo centinaia o migliaia di anni-luce, addentrandosinei misteri della più straordinaria categoria di mutanti, superando i pericoli più insidiosi dell’incomprensione e dell’odio.

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Rimase in ascolto, e la notte era vuota, eccettuati il fiume e il gufo e le foglie che frusciavano.

Si rialzò, lentamente, e mentre si rialzava udì un altro suono, un ululato che aveva in sè anche il rumore di denti, e per un istante rimase paralizzato, agghiacciato. Attraverso i secoli, quel suono fece vibrare una corda di paura involontaria… dalle caverne, e da un tempo ancora più remoto delle caverne, dal tempo in cui l’uomo viveva con il terrore della notte addosso.

Era un cane, si disse, o forse un lupo della prateria. Perché i lupi mannari non esistevano. E lui sapeva benissimo che i lupi mannari non esistevano.

Eppure c’era un istinto che riusciva a reprimere soltanto a fatica… l’istinto di correre via, pazzamente, senza ragione, alla ricerca di un rifugio, un rifugio qualunque, per difendersi dal pericolo tremendo che avanzava nel chiaro di luna.

Rimase teso ad attendere che l’ululato si ripetesse, ma non si ripeté. Il suo corpo si rilassò, i muscoli annodati ed i nervi aggrovigliati si allentarono, e lui fu di nuovo se stesso… o quasi.

Sarebbe fuggito via, pensò, se avesse creduto, se avesse creduto anche soltanto per metà. Era molto facile… prima credere, e poi fuggire. Ed era quello che rendeva tanto pericolosi gli uomini come Finn: lavoravano su di un istinto umano che stava annidato sotto la pelle… l’istinto della paura e, dopo la paura, dell’odio.

Lasciò il boschetto di cedri e proseguì, cautamente, sulla collina.

Aveva imparato per esperienza che era difficoltoso camminare nel chiaro di luna. C’erano sassi seminascosti che rotolavano sotto i piedi, c’erano buche e rialzi mascherati dall’ombra, trappole in cui si poteva storcere una caviglia.

Pensò ancora all’unica cosa che lo turbava… che l’aveva turbato fin dall’istante in cui Finn gliene aveva parlato.

Harriet Quimby , gli aveva detto Finn, era una spia dell’Amo.

E questo non era vero, naturalmente, perché era stata proprio Harriet che lo aveva aiutato a fuggire dall’Amo.

Eppure… Harriet era con lui in quel paese dove per poco non lo avevano impiccato. Era con lui mentre Stone veniva assassinato. Era con lui quando era andato al deposito dell’autostrada ed era stato preso in trappola da Rand.

Ricacciò indietro, nella propria mente, quell’elenco di fatti, ma non volevano saperne di rimanere nell’ombra: continuavano a strisciarne fuori per perseguitarlo.

Era ridicolo. Harriet non era una spia. Era una giornalista famosa, ed una buona amica, ed era abile, fredda e dura. Sarebbe stata veramente una buona spia, ammise Blaine, se avesse voluto… ma era una cosa estranea alla sua natura. Non era capace di sotterfugi, lei.

La collinetta si aprì in un profondo crepaccio che scendeva precipitosamente verso il fiume, e sull’orlo del crepaccio c’era un gruppo d’alberi contorti.

Blaine girò attorno agli alberi, e si sedette per terra.

Sotto di lui il fiume passava, e le sue acque nere erano infiocchettate di spuma, e il gelo della valle era più nero del fiume, e le colline marciavano lungo le due rive come gibbosi fantasmi d’argento.

Il gufo taceva, adesso, ma il mormorio del fiume s’era fatto più forte. Ascoltando attentamente, si poteva sentire il gorgogliare dell’acqua che ribolliva attorno alle barene di sabbia e si apriva la strada, con la forza, oltre all’albero che era caduto dalla sponda e se ne stava là appeso, con le radici ancora inchiodate nella terra, e il capo chiomato nell’acqua.

Non sarebbe stato poi un brutto posto, disse Blaine, per fermarsi durante la notte. Non aveva né una trapunta né una coperta, ma gli alberi lo avrebbero riparato e nascosto. E sarebbe stato più al sicuro che in qualsiasi altro posto.

Strisciò in mezzo agli arbusti che crescevano sotto agli alberi, e si preparò una specie di nido. C’era qualche sasso da spostare, un ramo spezzato da togliere di mezzo. Muovendosi a tentoni nell’oscurità, radunò un mucchio di foglie, e soltanto quando ebbe finito di raccoglierle pensò ai serpenti a sonagli. Comunque, si disse, la stagione era già un pò troppo avanzata perché ci fossero in giro molti serpenti a sonagli.

Si raggomitolò sul mucchio di foglie, ma non stava comodo come aveva sperato. Ma era una sistemazione passabile, e poi non sarebbe rimasto lì per molte ore. Fra non molto sarebbe sorto il sole.

Giacque tranquillo nell’oscurità, e gli avvenimenti di quella giornata incominciarono a marciare spietatamente sullo schermo della sua coscienza… un riassunto mentale che lui tentava di fermare, ma senza riuscirvi.

Incessantemente, le interminabili bobine giravano: squarci e impressioni d’una giornata che era stata molto piena, carichi dell’irrealtà di tutte le analisi a posteriori.

Se almeno fosse riuscito a interrompere quel flusso di ricordi, se fosse riuscito a pensare a qualche cosa d’altro…

E c’era qualche cosa d’altro… la mente di Lambert Finn.

Vi frugò, impacciato, e quella mente lo colpì in piena faccia: un freddo, indomabile groviglio di odio e di paura e di complotti che fremeva e si agitava e brulicava come un barattolo pieno di vermi. E al centro di quella massa c’era l’orrore puro… l’orrore dell’altro pianeta, quel pianeta che aveva trasformato il suo osservatore umano in un pazzo furioso, uscito dalla macchina delle stelle con la bava alla bocca e gli occhi sbarrati, e le dita piegate ad uncino, come artigli.

Era osceno, ripugnante. Era spoglio e crudo. Era tutto ciò che rappresentava l’opposto dell’umanità. Balbettava e squittiva e ululava. Sogghignava come un teschio alieno. Non v’era nulla di chiaro o di pulito: non vi erano particolari che si potevano distinguere, ma la sensazione travolgente di un male abissale.

Blaine si ritrasse con un grido che gli esplodeva nel cervello, e quel grido spazzò via il nucleo centrale di orrore.

Ma c’era un altro pensiero… un pensiero fuggevole e stranamente incongruo.

Il pensiero di Halloween.

Blaine l’afferrò con forza, lottando per impedire che il nucleo dell’orrore alieno si insinuasse in quella specie di film interminabile.

Halloween… la dolce notte di fine ottobre, con le sottili spirali di fumo delle foglie bruciate che aleggiavano per le strade, illuminate dai lampioni o dalla grande luna piena librata proprio al di sopra dei rami più alti degli alberi spogli, più grande di quanto sembrava possibile ricordare, come se si fosse avvicinata un poco di più alla Terra per spiare. Le voci alte e stridule dei bambini risuonavano per le strade, e c’era il ticchettare continuo dei piedi minuscoli, mentre le bande di ragazzini camuffati da folletti facevano il girotondo, gridando di gioia e lanciandosi richiami. Sopra le porte, le lampade erano accese in un bonario invito, e le figurette incappucciate o avvolte nei lenzuoli andavano e venivano, stringendo sacchi che diventavano sempre più pesanti e più colmi per le offerte fatte dai grandi, via via che il tempo passava.

Blaine ricordava tutti i particolari… come se fosse soltanto ieri, come se lui fosse ancora un bambino che correva felice attraverso la città. Ma in realtà, pensò, era stato molto, molto tempo prima.

Era stato prima che il terrore si facesse più denso e più fetido, quando la magia era ancora una moda e nient’altro, e tutti la trovavano ancora divertente, e Halloween era una festa gaia e spensierata. E i genitori non avevano paura che i bambini se ne andassero in giro di notte.

Ma oggi un Halloween sarebbe stato qualcosa di impensabile. Adesso Halloween era un giorno in cui bisognava mettere doppie spranghe alle porte, e chiudere bene il camino, e inchiodare sulla cappa segni cabalistici potentissimi.

Peccato, pensò Blaine. Era stato così divertente. Come quella notte che lui e Charline Jones avevano incominciato a bussare alla finestra del vecchio Chandler, e il vecchio era uscito fuori, ruggendo di indignazione simulata, con un fucile in mano, e loro erano scappati via di corsa, così in fretta che erano caduti nel fosso, dietro alla casa dei Lewis.

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