Clifford Simak - Pescatore di stelle

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L’Uomo vuole raggiungere le Stelle, ma non con mezzi tecnici comuni o strabilianti astronavi, bensì mediante una forma superiore di telecinetica, capace di proiettare la mente e quindi il corpo negli spazi infiniti. Il lettore compirà con la fantasia un viaggio che contempla mete raggiungibili soltanto dopo centinaia o migliaia di anni-luce, addentrandosinei misteri della più straordinaria categoria di mutanti, superando i pericoli più insidiosi dell’incomprensione e dell’odio.

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Ora fu Blaine a scuotere il capo.

«Non è uno bello spettacolo.»

«E quella Sara? Anche lei è una para.»

«Beh, le spiegherò, amico. Sara è di ottimo sangue. È caduta in miseria, ma la sua famiglia vive qui da più di cento anni. I cittadini la tollerano.»

«E poi è comoda, per scoprire i para.»

Lo sceriffo ridacchiò.

«Alla nostra Sara sfugge ben poco,» disse, con orgoglio civico.

«Si dà molto da fare, sorveglia tutti i forestieri che capitano in paese.»

«E in questo modo prendete molti para?»

«Abbastanza,» disse lo sceriffo. «Di tanto in tanto. Un discreto numero, direi.»

Si accostò alla scrivania.

«Vuoti le tasche qui sopra. La legge stabilisce che devo farlo. Le preparerò una ricevuta.»

Blaine incominciò a frugarsi nelle tasche. Portafogli, portacarte, portachiavi, fazzoletto, fiammiferi, e infine la pistola.

L’estrasse con un gesto impacciato e la posò sulla scrivania, accanto all’altra roba.

Lo sceriffo la fissò.

«L’aveva in tasca?»

Blaine annuì.

«E non ha cercato di prenderla?»

«Ero troppo spaventato.»

«Ha il porto d’armi?»

«Non è neanche mia.»

Lo sceriffo fischiettò sommessamente, fra i denti. Prese la pistola e l’aprì, mise allo scoperto la lucentezza di rame del caricatore. L’osservò, per un attimo, poi aprì un cassetto della scrivania e ve la buttò dentro.

«Adesso,» disse in tono di sollievo, «ho un motivo legale per trattenerla.»

Prese l’astuccio dei fiammiferi e lo restituì a Blaine.

«Questi le serviranno per fumare.»

Blaine li rimise in tasca.

«Posso procurarle delle sigarette,» disse lo sceriffo.

«Non occorre,» rispose Blaine. ««Qualche volta ne porto con me, ma non fumo molto. Di solito le rovino, a furia di portarle addosso, invece di fumarle.»

Lo sceriffo staccò da un gancio un mazzo di chiavi.

«Venga,» disse.

Blaine lo seguì in un corridoio sul quale si apriva una fila di celle.

Lo sceriffo aprì la prima porta, di fronte al suo ufficio.

«Sarà solo,» disse. «L’ultimo se ne è andato ieri sera. Un ragazzo che ha attraversato il confine e s’è messo nei guai. Credeva di valere quanto un bianco.»

Blaine entrò nella cella. Lo sceriffo sbatté la porta e la chiuse a chiave.

«Se le serve qualcosa,» disse, in tono molto ospitale, «non ha che da dirmelo.»

VIII

L’avevano chiamata con molti nomi. Un tempo, era conosciuta come percezione extrasensoriale. E poi era venuto un tempo in cui l’avevano chiamata psionica. Psi per amore di brevità. Ma in principio era stata magia.

Lo stregone, con gli ossidi che adoperava per dipingersi, con gli ossidi per la divinazione che tintinnavano dentro il teschio, con il sacchetto dal contenuto nauseabondo, forse l’aveva praticata, in modo molto goffo, prima che la prima parola venisse scritta: cercando di afferrare un principio che non riusciva a comprendere, sapendo probabilmente che non lo comprendeva, e senza rendersi conto che vi fosse qualcosa da comprendere. Tutta la conoscenza veniva tramandata da mano a mano. Lo stregone del Congo se ne serviva, i sacerdoti egiziani la conoscevano, i saggi del Tibet la praticavano. E, in tutti questi casi, non venivano usate saggiamente, e non veniva compresa, ed era mescolata ad una quantità di formule sciocche, e nei giorni della ragione era ormai completamente screditata, e non c’era quasi più nessuno che vi credesse.

Dai giorni della ragione emersero un metodo ed una scienza, e non vi era posto per la magia in un mondo costruito dalla scienza… perché nella magia non c’era metodo e non c’era un sistema, e non poteva essere ridotta ad una formula o ad un’equazione. Perciò era sospetta, era considerata stupidaggine. Nessuno in pieno possesso delle sue facoltà mentali la prendeva sul serio.

Ma adesso la chiamavano PK per indicare la paracinetica o cinetica paranormale, una definizione troppo lunga. E quelli che la possedevano venivano chiamati para e finivano in carcere e qualche volta avevano una sorte anche peggiore.

Era una faccenda strana, a pensarci bene… perché, nonostante l’abisso che divideva la PK e la scienza, era stata necessaria la mentalità ordinata, data dalla scienza alla razza umana, perché la PK potesse funzionare.

E, anche se poteva sembrare strano, si disse Blaine, era stato necessario che la scienza dovesse svilupparsi, prima che l’Uomo potesse comprendere le forze che avevano liberato la sua mente dai ceppi che la tenevano avvinta, prima che l’energia mentale potesse essere utilizzata da coloro che, senza sospettarlo, l’avevano sempre portata in sè. Perché anche nello studio della PK c’era stato bisogno di metodo, e la scienza era il campo di addestramento nel quale s’era sviluppato quel metodo.

Alcuni dicevano che nel passato l’umanità si era trovata ad un bivio. Una delle strade portava la scritta "Magia", e l’altra "Scienza". L’Uomo aveva preso la strada della scienza, e aveva dimenticato la magia. Molti arrivarono fino al punto di affermare che l’Uomo aveva commesso un grave errore, quando aveva scelto fra le due strade. Chissà dove saremmo arrivati, dicevano, se avessimo scelto la Magia fin dall’inizio.

Ma si ingannavano, disse Blaine a se stesso, perché quelle due strade non erano mai esistite: ve n’era stata una soltanto. Perché l’Uomo doveva padroneggiare la scienza prima di poter dominare la magia.

Anche se la scienza aveva quasi sconfitto la magia, anche se l’aveva quasi ricacciata in un limbo, fra le risate di disprezzo.

E ci sarebbe riuscita completamente, se non vi fossero stati certi uomini ostinati, che avevano rifiutato di rinunciare al sogno delle stelle. Uomini disposti a fare qualunque cosa, e di resistere alle risa di tutto il mondo, ad accettare il disprezzo, pur di mettere le mani sulle stelle.

Blaine si chiese come doveva essere il mondo, nei tempi in cui l’Amo era soltanto una fievole speranza, uno sfavillare della mente, un articolo di fede. Perché quel piccolo gruppo di individui decisi, ostinati e pieni di speranza erano soli. Quando avevano richiesto aiuto, nessuno li aveva aiutati, tutti avevano riso beffardamente per la loro follia.

Per la stampa era stato un invito a nozze, quando si erano presentati a Washington a chiedere un aiuto finanziario. Naturalmente, l’aiuto era stato rifiutato, perché il governo non voleva aver niente a che fare con un gruppetto così pazzesco. Se la scienza, nel fulgore della sua gloria e della sua potenza, non era riuscita a raggiungere le stelle, cosa potevano sperare di fare quegli individui? Perciò quegli uomini avevano lavorato da soli, grazie ad alcune elemosine ottenute qua e là: un piccolo stanziamento ottenuto da parte dell’India, un altro da parte delle Filippine, un altro ancora dalla Colombia… più le sovvenzioni che arrivavano dalle società metafisiche e da pochi simpatizzanti.

E poi finalmente un paese che aveva un cuore, il Messico, li aveva invitati a stabilirsi sul suo territorio, aveva fornito il denaro necessario, aveva creato un centro studi ed un laboratorio, aveva dato loro, finalmente, un incoraggiamento pratico, anziché un coro di risate.

E, quasi da quello stesso giorno, l’Amo era diventato una realtà, ed era diventato un’istituzione che faceva onore non soltanto a se stessa ma anche al paese che le aveva aperto le porte.

Ed io ne faccio parte, pensò Blaine, seduto nella sua cella: faccio parte d’una organizzazione che è virtualmente una società segreta, anche se non per colpa sua. È resa segreta, più esattamente, dall’invidia e dall’intolleranza, e dalla superstizione incalzante di tutto il mondo. E, anche se io sto fuggendo, anche se mi sta dando la caccia, io continuo a farne parte.

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